Testo in revisione
In questa sezione sono contenuti appunti di viaggio sugli luoghi, città e località collegate ad Odorico da Pordenone. E' verosimile che Odorico avesse preso degli appunti durante il suo viaggio, purtroppo nulla di scritto di suo pugno ci è pervenuto ai giorni nostri. Quindi partiamo da quanto egli ha dettato nella sua Relatio per ripercorrere le sue orme cercando tracce e riferimenti nella geografia attuale in modo da comporre degli appunti di viaggio aggiornati alla nostra epoca.
Odorico, per fare comprendere le dimensioni delle città, in particolare quelle cinesi, spesso le confronta con quelle italiane, Bologna, Ferrara, Treviso, Vicenza, Venezia, Padova. Quasi sicuramente Odorico le ha visitate prima di partire per l'Oriente. Questo fa pensare che Odorico, come frate minore, ricopriva incarichi che lo portavano a viaggiare anche fuori dal Friuli, considerando la rete estesa di presenza sul territorio che l'ordine possedeva.
Poche sono le date certe e documentate del suo viaggio in oriente, basandoci su quanto dettato da Odorico ed alcuni documenti possiamo delineare un arco temporale con le seguenti date:
- 1280 circa: Nascita di Odorico; dalla ricognizione medica sui resti del corpo (2002) effettuate risulta che al momento della morte Odorico aveva circa 50 anni;
- 1318 (dopo 11 luglio): Odorico parte per l’Oriente seguendo la via maritima; Odorico si trova a Portogruaro l'11 luglio 1318 per un atto notarile;
- 1321 (9-11 aprile): martirio dei quattro francescani a Tana;
- Successivamente Odorico recupera a Tana le reliquie;
- 1324 (fine, o inizio 1325), Odorico approda in Cina durante il regno del Khan Yesün Temür;
- 1325 (prima metà): Odorico arriva a Khān Bālīq (Pechino) dove rimase per tre anni;
- 1328 (inizio): Odorico intraprende il viaggio di ritorno per via terra;
- 1328 Muore l'arcivescovo di Khān Bālīq Giovanni da Montecorvino, il 15 agosto 1328 muore il Khan Yesün Temür
- 1330 (aprile-maggio): Odorico arriva a Venezia;
- 1330 (maggio); si trova a Padova dove, su ordine del ministro provinciale Guidotto da Bassano, detta la Relatio de mirabilibus orientalium
Tatarorum
- 1331 (14 gennaio): morte di Odorico a Udine nel convento di San Francesco per complicanze cardiache causate da insufficienze respiratorie.
Itinerario
Pordenone
Odorico è nato a Pordenone tra 1280 e 1285. Dalla ricognizione medica sui resti del corpo effettuata nel 2002 risulta che al momento della morte Odorico aveva circa 50 anni;
Bologna
Relatio: Cap. XXI
"De hac contrata recedens Indie et transiens per multas civitates et terras, veni ad quandam nobilem terram nomine Caytan, in qua fratres minores sunt et habent duo loca...
In hac civitate est magna copia omnium illorum que necessaria sunt humane vite; nam tres libre et octo uncie zucari illic habentur minori dimidio grosso. Hec civitas ita magna est, sicut bis esset Bononia."
"Partendo da questa regione dell’India e passando per molte città e paesi, giunsi a una nobile città che si chiama Zaiton, nella quale ci sono i frati minori che vi hanno due conventi. ...
In questa città c’è grande quantità di tutti quei beni che sono necessari per la vita umana: qui si possono comperare tre libbre e otto once di zucchero per meno di mezzo soldo veneziano. Questa città è grande come due volte Bologna."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXI.
Citata da Odorico nella sua Relatio al capitolo XXI dove confronta la città cinese di Quangzhou (Zaiton) con Bologna dicendo che è due volte più grande.
Ferrara
Relatio: Cap. XXV
"Ab hac recedens et transiens per octo dietas per multas civitates et terras, per aquam dulcem veni ad quandam civitatem nomine Lencin. Hec civitas posita est super unum flumen quod vocatur Caramoram; hoc flumen per medium Cathay transit, cui magnum damnum infert quando rumpit, sicut est Padus transiens per Ferrariam."
"Partendo da questa città e viaggiando per otto giornate, incontrai molte città e paesi, e navigando in acqua dolce giunsi a una città di nome Lencin. Questa città è situata presso un fiume che si chiama Caramoram: questo fiume scorre attraverso il Catai, e reca grandi danni alla gente quando rompe gli argini, come fa il Po a Ferrara."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXV.
Citata da Odorico nella sua Relatio al capitolo XXV dove racconta che presso Lencin è situato un fiume chiamato Caramoram che scorre attraverso il Catai e reca grandi danni quando rompe gli argini come fa il Po a Ferrara.
Treviso e Vicenza
Relatio: Cap. XIX
"Ubi sciendum est quod, dum navigarem per mare occeanum versus orientem per multas dietas, ad illam nobilem provinciam Manci ego veni, quam Indiam vocamus superiorem. De hac India diligenter quesivi christianos, saracenos, idolatras omnesque officiales magni canis, qui omnes uno ore loquuntur et dicunt quod hec provincia Manci habet bene duo milia magnarum civitatum; que in tantum sunt magne ille civitates, quod neque Vincencia neque Tarvisium in earum numerum ponerentur."
"Si deve sapere che mentre navigavo sull’Oceano verso Oriente per molte giornate, arrivai alla nobile provincia di Manzi, che noi chiamiamo India superiore. Circa questa regione interrogai diligentemente cristiani, saraceni, idolatri e tutti gli ufficiali del Gran Khan, che tutti concordi dichiarano e affermano che questa provincia di Manzi ha sicuramente duemila grandi città, così grandi che, presso di loro, né Vicenza, né Treviso sarebbero considerate tali."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XIX.
Citata da Odorico nella sua Relatio al capitolo XIX dove dichiara che nella Cina meridionale (Manzi o India superiore nel testo) ci sono sicuramente duemila grandi città, così grandi che, presso di loro, nè Vicenza, nè Treviso sarebbero considerate tali.
Padova
Relatio: Cap. XXIII
"Hinc recedens, veni ad unam civitatem nomine Cansaye, quod idem est quod “civitas celi”. Hec civitas maior est aliqua alia que hodie sit in mundo: circuit enim bene centum miliaria. In ipsa enim non est spansa terre que non bene habitetur, immo multotiens erat aliqua domus que bene decem vel duodecim superlectiles in se habebat. Hec civitas etiam habet burgia magna valde habentia maiorem gentem quam ipsa civitas habeat. Hec duodecim portas habet principales, et prope quamlibet illarum portarum forte ad octo miliaria sunt civitates maiores quam esset civitas Venetiarum et Padue; unde bene ibitur sex vel septem dietis per unum illorum burgorum et tamen videbitur modicum permeasse.
Hec civitas posita est in aquis lacunarum, que manet et stat ut civitas Venetiarum; ipsa etiam habet plures quam duodecim milia pontium, in quorum quolibet morantur custodie, custodientes hanc civitatem pro magno cane. A latere huius civitatis labitur unum flumen, iuxta quod sita est civitas hec, sicut Ferraria ipsa manet iuxta Padum. Nam longior est quam lata. De ipsa autem diligenter inquisivi a christianis, saracenis, idolatris cunctisque aliis, qui omnes uno ore loquuntur dicentes quod bene centum miliaria circuit."
"Partendo da questo luogo, arrivai in una città chiamata Cansaye, che significa «città del cielo». Questa città è la più grande che ci sia al mondo, e ha una cerchia muraria di ben cento miglia. In essa non c’è una spanna di terra che non sia abitata, anzi molto spesso c’era qualche casa in cui abitavano dieci o dodici famiglie. Questa città ha anche grandi borghi dove abita un numero di persone più grande rispetto a quelle che stanno dentro la città. Questa ha dodici porte principali e nei pressi di ognuna di esse, a distanza circa di otto miglia, ci sono altre città più grandi di Venezia e di Padova. Così si può andare per sei o sette giornate di cammino attraverso uno di questi borghi e tuttavia sembra di averne visto solo una piccola parte.
Questa città è situata sulle acque di una laguna ed è solida e costruita come Venezia: in essa ci sono più di dodicimila ponti e su ognuno di essi ci sono guardie che li custodiscono e proteggono questa città per il Gran Khan della Cina. A fianco di questa città scorre un fiume, e la città è costruita lungo il fiume come Ferrara, che è sorta e sta presso il fiume Po. Infatti è più lunga che larga. Su di essa ho chiesto informazioni diligenti sia ai cristiani che ai saraceni, agli idolatri e a tutti gli altri, i quali dicono tutti unanimi che ha un circuito di cento miglia."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXIII.
Citata da Odorico nella sua Relatio al capitolo XXIII dove indica che ne i dintorni di Hangzhou (Cansaye) ci sono città più grandi di Venezia e di Padova.
Venezia
Relatio: Cap. XX
"Prima civitas huius provincie quam inveni vocatur Censcalan. Hec civitas bene magna est pro tribus Venetiis, distans a mari per unam dietam, posita super unum flumen, cuius aqua propter ipsum mare ascendit ultra terram bene duodecim dietis.."
"La prima città che incontrai in questa provincia fu Censcalan. Questa città è grande tre volte Venezia e dista dal mare circa una giornata di viaggio: è situata presso un fiume, la cui acqua risale dal mare entro la terraferma per dodici giornate di cammino..
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XX.
Odorico partì per il suo viaggio tra il 1315 e 1318.
Viene citata nella Relatio al capitolo XX nel confronto con Censcalan indicando che è grande tre volte Venezia.
Costantinopoli - Pera
Nome attuale: Istanbul, Turchia
Nome: Costantinopoli. Vers. min. del RAM.
Relatio: Redazione H (recensio anglica) - Cap. I
"Incipit itinerarium fratris Odorici ordinis fratrum minorum de mirabilibus orientalium Tartarorum. Licet multa et varia de ritibus et conditionibus huius mundi enarrentur a multis, tamen ego frater Odoricus de Foro Iulii de Portu Vahonis, volens transfretare ad partes infidelium, magna et mira audivi et vidi que possum veraciter enarrare. Primo transiens mare Maius me de Pera iuxta Constantinopolim Trapesundam transtuli, que Pontus antiquitus vocabatur. Hec terra est bene situata, sicut scala quedam Persarum et Medorum et eorum qui sunt ultra mare."
"Inizia il viaggio di Frate Odorico dell'ordine dei Frati Minori delle meraviglie dei Tartari d'Oriente. Quantunque molte cose e varie cose siano raccontate da molti intorno ai riti e alle condizioni di questo mondo, pure io, frate Odoricus da Foro Julius de Portu Vahon, volendo passare dalle parti degli infedeli, udii cose grandi e mirabili e vidi che posso dire loro sinceramente. Per prima cosa, attraversando il Mare Grande, mi sono trasferito da Pera, vicino a Costantinopoli, a Trebisonda, che anticamente si chiamava Ponto. Questo paese è ben situato, in un luogo che permette di entrare nelle terre dei Persiani e dei Medi, e di quelli che sono al di là del mare"
All'epoca Costantinopoli era un passaggio importante per i commerci e itinerari verso oriente. Era sede dell'Impero romano d'Oriente o Impero bizantino (anni 395-1204 e 1261-1453) e dell'Impero Latino (anni 1204-1261). L'origine della comunità francescana risale alla quarta crociata (1204) con una presenza nel centro di Costantinopoli, coh un convento presso l Agorà , cioè nella parte antica della città, confermata da un provvedimento di espulsione del 1307 emanato da Andronico II Paleologo nei confronti dei frati Minori.
Nel 1318 Odorico probabilmente soggiornò al monastero francescano a Galati detta anche Pera - dal vecchio nome in lingua greca del posto (Sykais Peran, alla lettera: Il campo di fichi dall'altra parte.) corrispondente all'attuale quartiere Beyoğlu di Istanbul. Le fonti riportano la notizia di una «vera e propria sede francescana nella Chiesa di S. Francesco che sorgeva nel sobborgo di Galata»
Luoghi francescani a Costantinopoli
Trebisonda
Nome attuale: Trebisonda (Trabzon), Turchia, sponda nord-orientale del Mar Nero.
Nomi: Trapesonda; Trapesondam DOM.; Trepisonda, MAGL.; Trabisonda. Vers. min. del RAM.; Trapesonda, MARC.; Trepessundam, VENNI; Trapesondam, UTIN.
Relatio: Cap. I
"Nam primo transiens mare Maius me transtuli Trapesondam, que Pontus antiquitus vocabatur. Hec terra valde bene est situata: ipsa enim est scala quedam, videlicet Persarum, Medorum et omnium eorum qui sunt ultra mare."
"Dopo aver attraversato il mare grande, giunsi dapprima a Trapesonda, che anticamente si chiamava Ponto. È una città ben situata in un luogo che permette di entrare nelle terre dei persiani, dei medi e di tutti i popoli che vivono al di là del mare."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo I.
Lasciata Costantinopoli, via mare in direzione di Trebisonda, lungo la costa anatolica del Mar Nero. Nel Basso Medioevo, la città era la sede del cosiddetto impero di Trebisonda che era controllata dalla dinastia bizantina Comneno.
Domenichelli
[Domenichelli]
=====Illustrazioni al Capo I.=====
- « Da Padova, ove prese il Beato la benedizione e licenza dal Superior Provinciale, che in quell'anno era il Padre Jacopo Sauri, venne a Venezia, e sulle Venete navi salpò a Costantinopoli, e di là a Trabisonda. « Si distinguevano i Veneti in que' secoli per la mercatura e marinaresca nei porti dell'Asia. Il patrizio Giosafatte Barbaro, che fu in Persia Ambasciatore per la Repubblica Veneta, nell'esordio alla storia del suo viaggio, a laude scrive della sua Patria : --- Nei quali due esercizi (di mercanzia e marinaresca) dal principio suo per sino al dì presente tanto i miei padri e signori Veneziani sono stati eccellenti, che credo con verità poter dire, che in questa cosa soprastiano agli altri. Imperocchè da poichè l'Imperio Romano non signoreggia per tutto, come una volta fece, et che la diversità dei linguaggi, costumi e religioni hanno, come a dir, passato e rinchiuso questo mondo inferiore; grandissima parte di questa poca (terra del mondo) la quale è abitabile, saria incognita, se la mercanzia et marinarezza, per quanto è stato il poter de' Veneziani, non l'avesse aperta. - « La partenza da Padova del nostro Beato, che manca al Manoscritto, l'abbiamo dalla sesta decade di fogli del catalogo de' Manoscritti Riccardiani di Firenze, pubblicata dal chiarissimo sig. dottor Giovanni Lami. Il foglio incomincia in questi termini. « Anno MCCCXVIII. Io Frate Oderigo de Frigoli, dell'Ordine de Frati Minori della Provincia di Padova, volendo fare memoria de paesi e provincie le quali trovai partendomi di Padova, e venni in Costantinopoli, e quindi passai il Mar Maggiore, e venni in Trabisonda, ec. » - 258 - « Incomincia il Beato la descrizione del suo viaggio dal Mar Maggiore. Questo mare in oggi è conosciuto col nome di Mar Negro, e che può dirsi mare Mediterraneo, entrando egli in grembo alla terra, e da cui non esce che per due stretti: l'uno è il Bosforo Tracio tra Costantinopoli e Galata, e l'altro è tra Caffa nella Crimea e Taman nella Circassìa. Altri lo dissero Ponto Eusino. A Levante ha la Crimea e la Circassìa, a mezzo di la Mingrelia, a Ponente la Natolia, a Settentrione la Romania, la Bulgaria e la Bessarabia. I paesi, che si trovano navigando intorno al Mar Maggiore, o Mare Eusino, si leggono descritti nella lettera di Arriano all'Imperadore Cesare Traiano Adriano Augusto, che fu stampata in Venezia dai Giunti nel secondo volume delle navigazioni e viaggi ». (VENNI, note.) Il Ponto Eusino, o Mar Nero, a' tempi d'Odorico, veniva chiamato « Mare Maius »; appellazione che conservò per lungo tempo dipoi. Tale nome gli vien dato anche dal Polo, che dettò il suo viaggio nel secolo antecedente a quello del nostro Beato, da Aitone armeno e da Giosafat Barbaro, che scrissero un secolo dopo, e da Vincenzio Le Blanc, sul cominciare del secolo XVII. Il da Pian Carpino e Ricoldo da Montecroce lo dicono a Mare Magnum »; e « Mare Ponti, quod vulgariter vocant Mare Maius », il Rubrouck; titolo, questo ultimo, datogli anche da Edrisi. A Costantinopoli, posta fra il Mar di Marmara (Propontide) ed il Mar Nero (Ponto Eusino), chiamavano quest'ultimo, Mar Maggiore, per essere di molto superiore all'altro in estensione. Marsden acconciamente osserva, che anche gli Ebrei, per consimile ragione, chiamavano Mar Maggiore il Mediterraneo, in confronto del Mar Morto. Il Mandeville e Frate Giordano, contemporanei d'Odorico, lo dicono e Mare Maurum »: XXX nel Bisantino e nel Greco moderno ha significato di Nero; e « Nigrum » appunto lo chiama il nostro Frate Pasquale da Vittoria; e poco sotto, anche il detto Giordano, parlando d'un mare, che pare dover essere il Mar Maggiore. (YULE, note.) L'incognito Francescano che circa la metà del mille quattrocento scriveva il « Libro del conoscimiento de todos los reynos », pubblicato la prima volta nel 1877 in Madrid, sopra un Codice spagnolo, dal signor Jimenez de la Espada, e nel sesto volume della Storia delle Missioni Francescane del Padre Marcellino da Civezza, in italiano, indicava il Mar Nero col titolo di « Mar Major »; e nel Portulano di Andrea Bianco, composto nel 1433, troviamo nel bel mezzo del Mar Nero l'iscrizione: Questo xe Mar Major. Intorno alle parole del testo: « Veni Trapesondam, quae Pontus antiquitus vocabatur », fa il Righini la seguente giustissima osservazione: « Non Trabisonda vocabatur Pontus (spiegò lo Sbaraglia), ma - 259 - il Mare che dicevasi « Pontus Euxinus », e la provincia al meriggio di quel mare, di cui alle volte Trabisonda fu la metropoli. » (RIGHINI, note.) Basta gittar gli occhi sopra la carta geografica per vedere che Trebisonda è veramente il porto principale della costa meridionale del Mar Nero, a cui debbono di necessità far capo gli Armeni, ed anche i Persianí; tanto più che allora la Palestina essendo in mano dei Saraceni, i quali erano in rotta coi Tartari, non tornava spediente toccarne gli scali. Ai nostri giorni Trebisonda, benchè caduta dall'antico splendore, ha tuttavia un numero di venti o trenta mila abitanti, e commercia principalmente in rame, cuoio, cera, frutta e vino. I Turchi la dicono Tarabasan. (MALTE-BRUN, Précis de la Geographie, Paris, 1812, tom. III) « La prima città del suo sbarco (di Odorico) fu Trabisonda, patria del celebre monaco basiliano Bessarione arcivescovo di Nicea, patriarca di Costantinopoli, creato da papa Eugenio IV Cardinale del titolo de' Santi dodici Apostoli, poi vescovo Tusculano, e finalmente Decano del Sacro Collegio, e Protettore per molti anni dell'Ordine de' Minori. « Ella è città greca, che fu popolata da quelli di Sinopia, e, per testimonianza del nominato Arriano, conservava a suo tempo gli antichi altari fabbricati di mal pulita pietra. « Dividevasi anticamente la Natolia in più provincie, una delle quali è la Cappadocia, e città della Cappadocia è Trabisonda, o Trapezunte, con suo castello ristaurato dall'Imperator Giustiniano. Alla parte orientale vanta un porto tanto comodo, che anticamente porgeva agli abitatori un traffico assai vantaggioso. Dopo gli antichi Greci, la dominarono gl'Imperatori Romani, e poscia quelli d'Oriente. Cacciato dal trono Costantinopolitano Alessio III, che prese il cognome di Comneno, dalle armi vittoriose de' confederati l'anno 1204, tanto si adopero, che impadronitosi di Trabisonda, la creò Ducea l'anno 1209. Aitone Armeno parlando de' Tartari scrive, che gl'Imperatori di Costantinopoli costumarono di governare Trabisonda per mezzo di un rettore col titolo di Duca; il quale, ribellatosi al suo Signore, se ne impadronì col titolo di Re, che a tempo d'Aitone si cambiò in quello d'Imperatore. Viveva Aitone ai giorni di Clemente V, e contemporaneamente al Beato Odorico. « La famiglia Comnena ebbe il possesso dell'Impero Trabisondino fino al 1460, e l'ultimo fu David Comneno vinto da Maometto II, imperatore de' Turchi, che il condusse prigione con la famiglia a Costantinopoli, ove morir lo fece. Il Beato Odorico nomina il palazzo dell'Imperatore di Trabisonda. - 260 - « Lo stuolo di pernici dimestiche, osservato con stupore dalla semplicità del nostro Beato, non riesce portentoso a' tempi nostri, quando l'umana industria prende a divertimento l'ammaestrare i canarini col suono del flauto; le piche, i corvi, i pappagalli, e i stornelli avvezzarli alle articolazioni delle voci umane, i sparvieri alla caccia, e i corvi a fermare i cervi. Chi si è dilettato alla caccia delle colombe salvatiche, avrà goduto nel vedere pel corso di ore e ore lo zimbello molte centinaia di esse or qua or là aggirarne, fin'a tanto posate non sieno su i rami degli alberi ai cacciatori vicini. Le pernici, allo scriver del Du-Plessis, nell'Asia si allevano assieme co' polli. Delle anatre racconta il Salmon, che in Canton, città del Quansai, la fanno da pastorelle, conducendo a pascolare, e assieme unite tenendo le altre per la, campagna, e riconducendole verso notte ai loro nidi. Sono ammaestrate in guisa, che a un fischio del padrone, che le preceda in un battelletto, lo seguitano nelle risare, qua e là si spargono a pigliar rane, ed altri animali di paludi, e a svellere l'erbe al riso nocive. Con altro fischio tutte si adunano ai conosciuti navigli, e le più vecchie, fermatesi a bordo, le proprie sanno dalle forestiere separare, e dalla loro compagnia scacciarle. » (VENNI, note.) Intorno a questo fatto maravigliosissimo, dice il Yule: Questa storia è stata ritenuta per assurda. Eppure l'accurato Tournefort, narrando di un abitante di Scio, il quale aveva delle pernici dimestiche, che sotto la custodia di un pubblico guardiano le mandava ogni dì alla campagna, a mo'di mandre, a procacciarsi il nutrimento, aggiunge: Io ho veduto in Provenza, presso Grasse, un uomo che usava di prendere interi branchi di pernici, e farle venire a sè, alla sua chiamata: elleno si davano tutte in sua balia, le toglieva in grembo e le rimandava con le altre. Lo stesso racconto delle pernici a Scio, si trova in Busbequii Epist., Amsterd. 1660. (YULE, loc. Cit.) È poi noto che le spiaggie dell'Ellesponto sono popolatissime di pernici; per la qual cosa non torna punto difficile raccoglierne una gran quantità (MALTE-BRUN, loc. Cit.). Tuttavia i numeri quattromila, o due mila, che s'incontrano nei codici, debbono ritenersi quali figure rettoriche. La versione del Ramusio, che fa andare l'uomo delle pernici all'Imperatore di Costantinopoli, invece di quello di Trebisonda, come hanno gli altri testi, è manifestamente sbagliata. Tegena è Ziganah, a circa dodici leghe da Trebisonda, sulla via di Erzerum, e da lei piglia nome il passo Ziganah Dagli. Il Clavijo racconta di essersi fermato ad un castello detto Sigana, posto su di alta balza, lontano da Trebisonda tre giornate, il quale apparteneva - 261 - ad un signore Greco. È verissimo poi delle miniere di rame, ricordate nella versione minore del Ramusio. Tutta la valle del Karsput, al Sud di Ziganah, abbonda in rame e piombo, e sonvi le miniere d'argento di cui parla il Polo. (YULE, loc. Cit.) Sono ancora celebri le miniere di rame di Gumisch-Khana, vicino di Trebisonda (MALTE-BRUN, loc. cit.). Circa le tre diete, o giornate, che Odorico segna fra Trebisonda e Ziganah, ecco quello che nota il Venni: « Dieta, misura di viaggio. Gli antichi Romani usarono lo stadio, e il miglio. Gli Europei moderni praticano le leghe e il miglio. La dieta suol computarsi quel tratto di strada, che può fare ordinariamente in un giorno un uomo, viaggiando a piedi. Il Padre Girolamo Vitali la computa pel cammino di 20 miglia. Comunemente però si ascrivono trenta miglia di cammino a ciascun uomo in un giorno. Alcuni pretendono ancora, che in sei giorni si possino fare dieci diete; così verrebbero a farsi in un giorno da un viaggiatore miglia cinquanta. In un continuo viaggio sembra difficile in un uomo ordinariamente tanta velocità. Il Ramusio tiene l'opinione di mezzo a queste, computando ventotto diete consumate in giorni venti. Così verrebbero a farsi da un pedone quarantadue miglia in un giorno. « Della tradizione Trabisondina, che per alcun tempo riposasse sopra la porta della loro città il corpo di Sant'Atanasio, vescovo primate Alessandrino, come racconta il nostro Viaggiatore, non fan parola i dotti Padri Bollandisti, Daniele Papebrochio e Gottifredo Enschenio, sotto il dì due di maggio. Lo vogliono morto e seppellito nella sua chiesa d'Alessandria; e a tempo di San Germano pensano, che fosse trasportato a Costantinopoli, e dopo i tempi iconoclasti collocato lo dicono in una chiesa a Dio dedicata a suo onore sotto il dì 2 maggio, in cui celebrasi la sua festa, che in quel giorno fu stabilita presso la Chiesa Greca, dalla quale ella passò alla Chiesa Latina. Caduta Costantinopoli in man del Turco, e approdato in quel porto, l'anno 1455, Domenico Zotarelli, pretendono, che un Greco metropolitano lo persuadesse a portare in paese cattolico la sacra spoglia Atanasiana, perchè alle Mussulmane profanazioni non rimanesse esposta. Fu dunque levata dal suo sepolcro, e portata a Venezia, e fatta la giuridica ricognizione dal Santo Patriarca Lorenzo Giustiniani, la domenica fra l'ottava dell'Ascensione fu solennemente trasferita al monastero delle monache di Santa Croce della Zudecca. Ermolao vescovo di Verona scrisse la storia, in cui si fa dire al Metropolitano Greco, che Sant'Atanasio, fecit tertium Ecclesia, catholicae Symbolum. « I Critici da circa un secolo esaminano, se il Simbolo, Quicumque, sia parto della dotta penna di Sant'Atanasio. L'opinione contraria - 262 - sembra divenuta ormai comune. Il nostro Padre Maestro Domenico Speroni da Rovigo ha tutte compilate in un'opera in due tometti divisa, le opinioni degli eruditi, e queste tutte imprende a confutare. « Un Manoscritto Guarneriano di San Daniello rapporta, che attribuito venga ad Anastasio, forse pontefice, per ragione di una soprascritta, che ivi si vede in tali parole espressa: Fides Anastasii ». (VENNI, note.) Sopra una delle porte principali di Trebisonda è una lunga iscrizione, che si riferisce ad un vescovo cristiano e ad un Imperatore di Costantinopoli. Apparisce chiaramente che quello non è il suo luogo primitivo. Avrebbe ciò relazione con quel che dice Odorico? (YULE, note). « Quell'Atanasio, dal volgo creduto l'autore del Quicumque, e posto sulla porta di Trabisonda, mi suggerì lo Sbaraglia (dice il Righini) che sarà forse stato qualche vescovo della città, di nome Atanasio; ovvero quell'Atanasio, vescovo di Proponte l'anno 451, sottoscritto alla lettera de' vescovi della provincia di Corinto all'Imperator Teodosio, che leggesi negli Atti del Concilio Calcedonese, forse morto in Trabisonda e ivi sepolto. « In questa città di Trabisonda li Frati Minori avevano allora un Convento, che era il quinto della Vicarìa Orientale, giusta l'antico Catalogo de' nostri Conventi, appresso Frate Giordano (manoscritto della Libreria Vaticana); e poco dopo fu fatto capo della Custodia di Trebisonda in detta Vicarìa, presso il nostro Pisano, alla Conformità XI. » (RIGHINI, note.) Di quel tempo regnava felicemente in quella città Alessio III della casa Comneno, e non dipendeva da alcuno. (YULE, che cita FINLAY'S, Hist. of Greece (Medieval) and of the Emp. of Trebisond, 1851.)
Sitografia
Wikipedia - Trebisonda
Wikipedia - Simbolo Atanasiano
Bizanzio - L'Impero di Trebisonda
Arziron
Nome attuale: Erzurum, Turchia orientale
Nome: Artiron; Aziron DOM.; Carztron DOM. LAT.; Arziron, VENNI; Aceron, UTIN.; Arzirai, FARS.; Azarum, HAK.; Arciron, MUS.; Caricon, BOLL.
Relatio: Cap. I
"Hinc recedens ivi in Armeniam maiorem ad quandam civitatem que vocatur Artiron. Hec civitas multum erat bona et opulenta multo tempore iam transacto, et adhuc esset nisi fuissent Tartari et saraceni, qui eam multum destruxerunt; nam ipsa multum abundat pane, carnibus et multis aliis victualibus preterquam vino et fructibus. Ista civitas multum est frigida; de ipsa enim dicunt gentes quod est altior terra que hodie habitetur in mundo. Hec etiam multum habet bonas aquas, cuius ratio hec esse videtur: nam vene harum aquarum oriri videntur et scaturire a flumine Eufrate, quod per unam dietam distans ab ista civitate labitur inde. Hec etiam civitas est via media eundi Thauris."
"Partendo da qui, andai nell’Armenia maggiore in una città chiamata Artiron. Nel tempo passato questa città era molto bella e ricca, e lo sarebbe anche ora, se non ci fossero stati i tartari e i saraceni che la distrussero in gran parte. Infatti vi è abbondanza di pane, di carni e di molte altre vettovaglie, a eccezione del vino e della frutta. Questa città è molto fredda, di essa la gente dice che è la più alta città oggi abitata nel mondo. Tuttavia ha grande quantità di buone acque, e questa ne sembra la causa: sembra che scaturiscano e vengano dal fiume Eufrate, che scorre alla distanza di circa una giornata di cammino da questa città. Questa città è anche la via media per andare a Thauris."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo I.
Arzen in epoca romana oggi si trova in Turchia orientale con il nome di Erzurum. . Odorico descrive che in passato è stata una bella e ricca città, ma è stata danneggiata da battaglie e assedi. "La città è molto fredda e la gente dice che è la città più alta che in questi giorni è abitata su tutta la faccia della terra". Presenta un clima tipicamente continentale, con inverni rigidi a -11 °C in media, ma a volte si raggiungono i -30 °C durante le pesanti nevicate invernali.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo II.=====
- « Armenia chiamarono gli Ebrei terra di Ararath, e da loro fu riconosciuta per paese orientale. Nella Sacra Scrittura è nominata l'Armenia per i suoi monti, sopra i quali riposò l'Arca dopo il diluvio universale. Fu detta terra di Aranz, da Aram figliuolo di Sem, che la popolò colla sua descendenza. L'Apostolo San Bartolommeo portò la luce del Vangelo nell'Armenia, e vi coronò l'apostolato con il martirio. Ampliatasi la cattolica religione in questo paese, col suo proprio rito armeno si mantenne fino ai tempi di Nestorio nella sua purezza. A sventura di questa nazione, una gran parte entrò nel costui partito, e vi si mantiene ancora. Ella dunque è divisa in eretici di un numero grande col loro patriarca e vescovi, e in cattolici uniti alla Romana Chiesa col loro patriarca, che in Cilicia risiede. Illustre negli Annali Francescani è la memoria della nazione - 263 - armena, illuminata alla santa fede da' Frati Minori coi sudori delle loro Missioni fin dal pontificato d'Innocenzo IV. Avevano altresì in mezzo a questa piantati alcuni nostri Conventi. « Amplissimi furono gli antichi confini dell'Armenia, divisa perciò da' geografi in Armenia Maggiore e in Armenia Minore, signoreggiata dal proprio Re; ma finalmente per nostra mala sorte caduta sotto le conquiste mussulmane. Vogliono le nostre storie, che Giovanni re d'Armenia, rinunziato il regno a un suo nipote per nome Leone, si vestisse Frate Minore, e che poscia entrato in guerra co' Saraceni, terminasse la sua carriera con una morte gloriosa. Allora il suo figliuolo Liberio, o Olivieri, l'Ordine professato de' Crociferi, credono che si mettesse in viaggio alla visita de' Luoghi Santi, e sbarcato in Ancona sulle adriatiche spiaggie, dal terreno passasse al regno celeste, riverito poscia in quella cattedrale con ecclesiastico culto. L'Annalista Francescano Padre Luca Wadingo scrive all'anno 1294, qualmente il re Giovanni avanti la vita sua monastica avesse nome Aitone, e all'anno 1306 riporta un breve di Papa Clemente V a Giorgio patriarca diretto, a Leone Re dell'Armenia, a Frate Giovanni dell'Ordine de' Minori, Governatore delle terre armene, a Uxiano e Almaco zii del medesimo Re, accompagnato dalla pontificia munificenza, onde far fronte ai nemici della Croce. Una cronaca ascritta al nostro Beato Odorico pretende, che il Real campione Frate Giovanni non morisse in battaglia co' Saraceni; ma che l'uccidesse proditoriamente Bilargone fratello del Gran Can de' Tartari, per compiacere al Soldano d'Egitto, di cui più volte aveva trionfato Giovanni. Aitone Armeno, parente di quel sovrano, che nella sua gioventù nelle guerre si trovò degli Armeni contro i Saraceni, e che vestito l'abito Premostratense nell'isola di Cipro distese in carta la storia de' Tartari, presentandola l'anno 1305 a papa Clemente V in Avignone, al cap. IX parla di Aitone re d'Armenia all'anno 1253, e avanti l'anno 1270 la rinunzia riporta della corona armena da Aitone fatta a Leone suo figliuolo, e che rivolte al mondo le spalle entrasse in Religione, senza dir quale, col nome di Macario, e poco dopo morisse, l'epoca fissando di questi fattii all'anno 1230. Posti a confronto il Ridolfi, il Wadingo, e Aitone testimonio di veduta, si scorge molto divario ne' loro racconti. Quindi quel Frate Giovanni Minorita, Governatore delle terre armene, nel breve Clementino nominato, il padre non è del re Leone. Contuttociò in più Conventi della nostra Italia, e specialmente nel primo chiostro di Santa Croce in Firenze, sopra una porta, abbiamo un Frate Minore con la corona in capo, per Re d'Armenia qualificato; e la pittura è del secolo XV. Marino Sanuti, Veneto, che scriveva circa l'anno 1320, - 264 - il nostro Bartolomeo Pisano, scrittor quasi contemporaneo al Sanuti, ed altri posteriori scrittori riportati dal Wadingo all'anno 1294, sono uniformi nell'ascrivere all'Ordine Minoritico un re d'Armenia col nome di Frate Giovanni. « Il gran pontefice Benedetto XIV di santa memoria, scrive di quel beato Liberio, o Olivieri, venerato da tempo immemorabile nella cattedrale Anconitana con uffizio e messa nel giorno della sua festa, che cade il 22 di maggio, che fosse egli figliuolo d'Aitone re d'Armenia, e che vestisse l'abito di Frate Minore col nome di Frate Giovanni. A questo racconto similmente d'accordo non va il Monaco Aitone, il quale al capo XVI scrive, che venuti alle mani i due figliuoli d'Aitone re d'Armenia con i Saraceni dopo il 1264, uno restò morto, fu preso l'altro in battaglia, ed essendo riscattato, ebbe dal padre suo la corona Armena; e questi è Leone, cui scrive papa Clemente V l'anno 1306. Fra tanta dissonanza di opinioni io non ho un capitale di monumenti per decidere la bella questione, che il Wadingo si lusingò terminare col breve Clementino. Ciò non ostante io dico, qual difficoltà incontrerebbesi, il vasto Armeno regno dividendo in due sovrani, ambedue dello stesso nome Aitone, uno padre di Leone, conforme scrive il Monaco, o per meglio dire il Canonico Premostratense, zio l'altro e padre del beato Olivieri? Quante volte l'Impero Romano cinti vide del suo alloro più colleghi? Ebbe ancor questo regno vasti i confini, e l'Armenia si divise in Maggiore e Minore, antichi nomi da lei conservati fino all'invasione de' Turchi. In oggi è conosciuta sotto nome di Turcomania, che confina a Levante con l'antica Media, a Ponente colla Natolía, ed a Settentrione con la Giorgia e Natolía in parte. « All'Armenia Maggiore con molta probabilità ascriver si debbe la bella sorte di terra innocente, con cui Iddio formò il nostro primo padre, e lì d'appresso la terra d'Eden, in mezzo alla quale l'Artefice onnipossente fabbricò il paradiso terrestre. Leggasi il Calmet, il Baudrand, il Tornielli. Un moderno scrittore non crede, che abbiasi a cercare del paradiso terrestre il sito, fuori della Palestina, non molto discosto dalla ripa occidentale del piccol Giordano. Il Salmon lo crede nella Caldea, e, secondo il Du-Plessis, lo ha creduto ancora nell'Armenia Maggiore. Questo scrittore cita monsignor Uezio, che esattamente e dottamente spiegò la geografia del paradiso terrestre. Sopra il suo sito riporta cinque opinioni di Chambres. Avvegnachè peraltro l'opinione del Calmet rigettata venga da alcuni autori, fra' quali risplende il signor Don Antonio Lazzaro Moro, non è pertanto che ella non sia la più accreditata a' nostri giorni. - 265 - « Nell'eruditissimo Compendio della storia universale della Chiesa, che al presente è sotto i torchi Veneziani, si battezza per la più abbracciata opinione quella, che dichiara il terrestre paradiso situato verso l'Oriente nelle parti d'Armenia, o Mesopotamia, ove ora nascono il Tigri e l'Eufrate; fiumi che, come si ha dalla Genesi, nobilmente scaturivan da quello. » (VENNI, note.) « Un errore mi fe' qui scorgere il Padre Maestro Sbaraglia (dice il Righini), mostrandomi che Aitone lo storico, non presentò già l'opera sua a Clemente V in Avignone l'anno 1305, perchè egli si fe' monaco in quell'anno, e dopo ebbe ordine dal Papa di far detta Istoria che ancor scriveva nel 1307, come apparisce presso il Rainaldo all'anno suddetto. E Clemente V non andò alla città d'Avignone se non l'anno 1308, sendo stato coronato a Lione il detto anno 1305. Di fatti (diceva egli) quanto all'Aitone re e poi Francescano nulla v'ha di più certo e di niuna difficoltà, checchè sia di quel Liberio, oppure Oliverio, in Ancona venerato sulla fede e tradizione popolare. Il nostro Aitone iuniore fu figliuolo di Livone, o Lione, figlio di Aitone seniore, che verso l'anno 1270 si fece monaco col nome di Macario, lasciando il regno al figliuolo Livone, come abbiamo dallo storico Aitone al capo 33. Livone poi morì intorno all'anno 1289; e gli succedè nel regno il nostro Aitone iuniore, suo figliuolo, a cui Níccolò IV spedì Frate Giovanni da Montecorvino e compagni, come dalla lettera pontificia che leggesi appresso il Wadingo e il Rainaldo; e dalle maniere, dottrina e pietà del Montecorvino preso Aitone, si fece Religioso Francescano col nome di Frate Giovanni. » (RIGHINI, loc. cit.) Avverte il Padre Marcellino da Civezza, che Odorico tenne « via diversa da' primi suoi confratelli che il precedettero nelle asiatiche peregrinazioni, piegando un po' più a mezzogiorno. » (Storia univ. delle Miss. Franc., loc. cit.) « Arzirone è il moderno Erzerom, o Arserom, città principale della Turcomania, cinque giornate in circa lontana dal Mar Nero verso Ostro. È situata non molto lungi da un rivo del fiume Eufrate, che l'acque tramanda assai copiose. E comoda per chi volesse da Trabisonda viaggiare in Persia, e all'Indie, libero dalle rapine degli Arabi nel pericoloso cammino accampati d'Aleppo. La sua pianura è fertile, e scarsa solo di legne. È abitata da Maomettani, che la signoreggiano, da' Greci, e dai suoi antichi abitatori Armeni, di comunione separati dalla Chiesa Romana, riconoscendo un vescovo suffraganeo del patriarca d'Erivan in Persia. I Greci ancora hanno il proprio vescovo, che il primato noti riconosce del Romano Pontefice. » (VENNI, loc. cit.) - 266 - Confonde qui il Venni Erzerum con Ierzenga, chiamata Arzingan da Marco Polo, Eriza, o Erez, dagli antichi Armeni, Erzinghian dai Turchi, Arzengan dai Persiani, Arzengian dagli Arabi. Questa, posta su di un terreno vulcanico, ha dintorni fertili e amenissimi; ma di Erzerum noti è così. Ecco infatti che cosa ne dice il Malte-Brun: « En descendant l'Euphrate, on voit fléurir la vigne, et meme l'olivier, tandis qu'aux environs de la ville d'Erzeroum, il n'y a ní arbres fruitiers, ni bois a bruler. » (Précis de la Geographie, cit.) L' Ierzenga è sull'Eufrate, non ad una giornata distante, come vuole Odorico. Erzerum, nome corrotto da Arzan-al-Rum, o Roman Arzam, fu presa e saccheggiata dai Tartari nel 1241. Anche ai tempi di Tournefort i Francesi la chiamavano Erceron. Non è la più alta città del mondo; ma pur si eleva a considerevole altezza, essendo settemila piedi sopra il livello del mare; e vi sono sì rigidi inverni, che un viaggiatore italiano (BIANCHI, Viaggi in Armenia, 1863) la dice la Siberia dell'Impero Maomettano. Nel 1855-56 il termometro centigrado segnò -35 gradi. Sir J. Shiel (Glimpses of life, etc.) vide nel luglio cadervi a larghi fiocchi la neve. Frutta non vi sono; ma grano, farine ed altre vettovaglie vi vengono portate da climi migliori, in gran quantità. Le grandi carovane che fanno il viaggio dalla Persia alla Turchia e viceversa, sogliono provvedersi in questa città. (YULE, loc. cit.) Forse per questa ragione Odorico potè trovarla sì ben provvista. Il Malte-Brun (Précis de la Geog.) le assegna circa 25,000 abitanti, di cui 8000 Armeni, e dice che ha gran commercio di pelli, « Perchè fu l'ultima città che appartenesse agli Imperatori bizantini, assunse il nome di Arz-er-Rum (terra dei Greci). » (LAZZARI, i Viaggi di Marco Polo.) In Erzerum avevano i Francescani un luogo, che « fu il sesto della Vicaria Tartara Orientale, come si ha dal Manoscritto di Frate Giordano, e il secondo della Custodia Taurisiense, o di Tauris; non Chauriense, come scorrettamente leggesi nel nostro Pisano, copiato dal Wadingo nella nota dei Conventi della Vicaria d'Oriente; nè tampoco di Kars, quattro giornate distante da Erzerum verso Oriente, ove non si sa che mai la nostra Religione avesse Convento » (RIGHINI, loc. cit.) Il fatto della casa di prostituzione fondatasi in questa citta, che leggesi nella Versione minore del Ramusio, è confermato anche da altri viaggiatori di quel tempo.
Sitografia
Wikipedia - Erzurum IT
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Monte Sobissacalo
Nome attuale: Sconosciuto Hazankale
Nome: Sobissacallo; Sobissacelo VENNI; Sollisaculo UTIN; Bobis (PSobis) Sachalo FARS; Sobissacelo HAK; Sarbi-Sarbolo BOLL; Sollisaculo RAM; Sobissacallo MARC;
Relatio: Cap. II
"De hac civitate recedens ivi ad quendam montem qui vocatur Sobissacalo. In hac contrata est mons ille in quo est archa Noe, in quem libenter ascendissem si mea societas me prestolari voluisset."
"Lasciando questa città arrivai a un monte che si chiama Sobissacalo. In questa regione c’è il monte in cui si trova l’arca di Noè e vi sarei salito volentieri se i miei compagni avessero voluto aspettarmi."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo II.
Monte Sarbisacalo non è identificato con certezza. Odorico lo descrive come il luogo dove si trova l'Arca di Noè. Altre storie identificano questo luogo sul Monte Ararat, vicino dove Odorico potrebbe essere passato.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo III.=====
- « Il monte del nostro Viaggiatore, chiamato Sobissacelo, e dai Bollandisti Sorbi Sarbolo, probabilmente è uno di quelli che da Trabisonda si distendono alle pianure di Erze - 267 - rom, di neve sempre coperti. In queste vicinanze udì raccontare, essere il monte su cui di Noè l'Arca fermossi; pensavano quindi que' cittadini, che il loro paese fosse il più alto di tutto il mondo. » (VENNI, note.) Ha questo nome curioso anche il Pegolotti, dove fa l'elenco delle poste che sono nella via di Tabriz; e lo scrive « Sermessacalo ». Mi pare che abbia qualche lontana somiglianza col « Hassan-Kala'a » a ventiquattro miglia da Erzerum, presso cui la via si biforca in due rami, l'uno che mena a Tabriz, l'altro a Kars; stazione che dicesi anche « Serai-Hassan-Kala 'a. » Era piazza di qualche importanza, e i Genovesi vi avevano edificato un castello per proteggere i viandanti che percorressero quella via. Vi sono sorgenti calde. Potrebbe anche questo nome accennare all'Armeno « Surp, o Surpazan. » (YULE, note). Forse è il gran monte Seiban-Kohi, che mostra di lontanissimo le sue cime coperte di eterne nevi. Il Padre Marcellino da Civezza ritiene, che sotto questo nome debbasi intendere l'Ararat. Infatti, la tradizione degli Armeni pone sull'Ararat l'arca di Noè. Ecco le parole di Aitone: « In Armenia est altior mons, quam sit in toto orbe terrarum, qui Arath vulgariter nuncupatur, et in cacumine illius montis Arca Noe post diluvium primo sedit. Et licet propter abundantiam nivium, quae semper in illo monte reperiuntur, tam hieme quam aestate, nemo valeat ascendere montem illum, semper tamen apparet in eius cacumine, quod ab hominibus dicitur esse Arca. » E nell' istessa sentenza si esprimono anche altri autori. Ma non manca chi dia l'onore di aver ricevuto l'arca di Noè ad altri monti. La tradizione dei Maomettani accennerebbe al « Jibul-Judi », altissima vetta del Kurdistan. Rawlinson crede che il « Judi » sia di molto più alto del Demawend, e questo di quattro mila piedi maggiore dell'Ararat; la qual cosa farebbe pender la bilancia in favore dell'Judi. (YULE, loc. cit.) Queste discrepanze debilitano di molto l'opinione di chi volesse assolutamente che in questo luogo Odorico intenda parlare dell'Ararat, per la sola ragione che da alcuni fu creduto, che su quel monte posasse l'arca di Noè. Tanto più che alcuni testi, come la traduzione francese del Le Long, dicono che Sobissacelo era monte presso l'Ararat, ma non l'Ararat. La Versione minore del Ramusio ricorda le perpetue nevi che citoprono buona parte di questo monte; ciò che gli altri testi noti fanno. L'osservazione è in tutto conforme al vero.
Sitografia
Wikipedia - Ararat
Tauris
Nome attuale: Tabriz, Iran
Nome: Thauris
Relatio: Cap. I, Cap III.
"De hac contrata recedens me transtuli Thauris, civitatem magnam et regalem, que Susis antiquitus vocabatur."
"Partendo da questa regione mi recai a Thauris, una grande e regale città, che anticamente si chiamava Susis."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo III.
Tabriz attualmente è la più grande città dell'Iran nord-occidentale. Nel periodo di Odorico, era parte di Ilkhanato, un khanato mongolo stabilito in Persia nel XIII secolo con stretti legami con l'Impero mongolo. Abu_Sa'id era il nono regnante dell'Ilkhanato (1316–1335).
Tabriz. "Una grande città e reale." Questa città è stata confusa per tutto il Medioevo con Susa, una delle città dell'Impero persiano, che si trova al confine tra l'Iran e Mesopotamia, vicino alla moderna città di Dezful.
Viene nominata anche da Marco Polo nel Cap.25 del Milione.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo IV.=====
- « Da Erzerom passa il nostro Beato Viaggiatore a una città, da lui descritta per Reale, cui dà due nomi, Suisis, cioè, e Tauris. E qui s'incontra una grave difficoltà. Suisis, - 268 - luogo celebre per le sontuose nozze d'Assuero con la regina Ester, era capo dell'antica Susiana confinante con l'Assiria e con la Media. In oggi ella è una provincia del re di Persia sotto il nome di Cusistan, in cui è la città di Suster, o Schouster, e questa è l'antica Suisis del re Assuero, confinante a mezzo dì col Golfo Persico. « Tauris, riputata l'antica Ecbatana, residenza degli antichi Monarchi Persiani e Medi, è nella parte meridionale dell'antica Media. In oggi appellasi Tabril, capitale della provincia Aderbeitzan, l'undecima della Monarchia Persiana. Il Beato prese sbaglio dal rammentarsi ambedue nella Sacra Scrittura. Doveva scrivere Ecbatana, città reale dell' antico re de' Medi. Ella è comoda per passare da Erzerom a Soldania, ove egli venne, uscito da Tauris. Da Tauris a Soldania si posson contare dieci diete; da Suisis a Soldania saranno due terzi di più. Gli antichi viaggiatori ascrivono il gran traffico de' secoli XIV e XV a Tauris, o sia Ecbatana; qua si portavano le caravane provenienti dai porti del Mar Nero. Suisis da veruno fu detta Tauris; Tauris, e non Suisis, signoreggiavasi al tempo del Beato dai Saraceni, de' quali egli rammenta un tempio, o sia moschea, ove secco scorgeasi un albero. Stabilito pertanto, che il nostro Viaggiatore venisse in Tauris, oggi Tabriz, si vuol sapere come il De-l'Isle, nella Storia dell'Accademia delle scienze, faccia vedere, che Tauris è l'antica Gabris, e probabilmente Anzadan, l'antica Ecbatana? Comunque ciò sia, è la Media tanto rinomata ne' Libri Santi. « Or ritornando a Tauris, ella è situata in pianura costeggiata a Levante da non pochi monti, che le fanno corona, e a piè de' duali scorre un ramo del fiume Arasse; a Ponente ha vicino un lago... Ha un circondario di circa cinque miglia con un comodissimo traffico. Più volte cangiò padroni da Persiani a Turchi, e da Turchi a Persiani, Il suo sito corrisponde alla parte meridionale dell'antica Media. « Un mercante anonimo, che nel 1507 viveva e viaggiò in Persia, nella storia del suo viaggio diligentemente descrive l'ampiezza., la magnificenza, la ricchezza, la popolazione ed i costumi di Tauris; quindi con tal descrizione illustra, e fondamento aggiunge a credere quanto in poche parole di lei parla qui il Beato. La rammemora in oltre messer Giosafatte Barbaro, gentiluomo Veneziano, che v'andò Ambasciatore della sua augusta Repubblica l'anno 1436 al signor Assembei, che dominava in Persia. Così pure ne parla messer Ambrosio Contarini, altro Ambasciatore Veneto al signor Ussuncassan l'anno 1474, che la trovò in stato assai diverso e miserabile da quello che descrissela il mercante anonimo. » (VENNI, loc. Cit.) Il Venni erra, confondendo Tabriz con Ecbatana, come Odorico l'avea confusa con Schouster. - 269 - « Il nostro Beato ha dato a Tabriz il nome di Suisis per relazione popolare, e per conseguente fallace, tratta dal vocabolo di Reggia; chè siccome la reggia di Assuero al tempo di Ester era Susan, il volgo credè che Tauris, allora reggia de' Tartari, fosse la stessa che Susan. » (RIGHINI, loc. cit.) Tauris, o Tabriz, fu capitale sotto varie dinastie, e nel medio evo era un punto di contatto tra l'Oriente e l'Occidente, e di grande commercio. Per errore venne confusa con molte famose città. (YULE, loc.cit.) « Fornita nel 1255 la conquista della Persia dai Mongoli, divenne Tabriz, già diletta sede di Arun-al-Rascid, la residenza di Ulagu e dei suoi successori, fino alla fondazione di Sultanieh al principio del secolo XIV. Sul finire di questo secolo stesso, Tamerlano la prese e la saccheggiò; e nuovi assedi sostenne successivamente dagli Ottomani; ma sempre tornò sotto il dominio della Persia. Lo Chardin, che la visitò nel 1673, ne dà una vivace descrizione e ne calcola ad un milione gli abitanti. Questo dato è certamente esagerato; ma Tabriz era allora floridissima, laddove oggi è assai decaduta. » (LAZARI, Viaggi di Marco Polo, ec.) Il suo principal commercio è in seta. Dicesi che abbia sì vasta piazza da contenere trenta mila uomini ordinati a battaglia. (MALTE-BRUN, loc. cit.) A1 tempo d'Odorico vi regnava Abusaid Bakadur Khan, l'ultimo della dinastia dei Mongoli, che vi tenne vera signoria. (YULE, loc. Cit.) « In Tauris i nostri Frati avevano allora due Conventi, come ci attesta il Giordano (Provinciale Ord. Min.), e dopo di lui il nostro Pisano: al cui tempo uno di questi era capo di una Custodia del suo nome, cioè Taurisiense, nella Vicaria d'Oriente; e l'anno 1330 Giovanni XXII eresse questa città in vescovado, dandole per pastore un Domenicano, come da bolla di detto pontefice nel tom. II del Bollario di detto Ordine. » (RIGHINI, note cit.) Il Monte di sale a cui accenna Odorico, crede il Padre Marcellino da Civezza (Storia univers. delle Miss. Franc., loc. cit.) che corrisponda a quello che « nella moderna geografia è il gran deserto salso dell'Iran; » seguito anche recentemente dal signor Louis De Backer. Il qual deserto è in alcuni luoghi coperto di uno strato di sale cristallizzato, alto ben un pollice. Se non che questo deserto non potrebbe dirsi a poca distanza da Tabriz, che è posta per contrario all'estremità di fertili terre. Il Yule avverte, che i moderni viaggiatori non parlano di miniere di sale vicino di questa città; ma Ricoldo, entrando in Persia da questa parte, rammenta maravigliato i monti di sale che vi si spezzavano come pietre cori istrumenti di ferro; il Bakui, geografo Arabo, dice che a Tabriz era un monte di sale che veniva estratto a pezzi; lo Chardin nel 1673 (Notices et extraits) vi trovò una miniera - 270 - di sale. (YULE, loc. cit.) Potrebbe adunque essere una miniera esaurita; tanto più che, come avverte Odorico, era concesso di toglierlo a sì buon mercato. Più difficile è indicare che cosa abbia ad intendersi per l'albero secco, di cui parla il Beato; imperocchè par certo che qui si asconda qualche misteriosa leggenda, ora perduta. (YULE, loc, cit.) Avvertiamo nondimeno che Odorico ne parla sulla vaga voce del popolo; e vi ha testi, come il nostro, in cui se ne tace affatto. Ecco in compendio quello che ne dice Louis De Backer. L' Albero secco: parola di molti significati in antico: 1° Albero di nave. « Frascat lur a lur vela, e van ad Albre sec. » (Vie de S. Honorat). 2° Albero secco, nome di paese: « E 'l reis Felips en mar poia Ab autres reis, c' ab tal esfort vendran Que part l'Arbre sec irem conquistam. » (Bertrand Di, Boarr, Ara Saieu) « En la contrèe de l'Arbre seche. » (Voyage de Mar. Pol., ch. 201). « Jà n' i remaura tor de marbre Que n'abace jusc'au Seeh-arbre... Hostages ont livrés vaillans De Jerusalern XX enfans Atant s'en reva Pempérere... Ainc ne laissa jusc'au Sech-arbre Castiel, cité, ne tor de marbre. » Roman du Comte de Poitiers, v. 12S7, et 1636. « Car sa renommée espandra jusques à l'Arbre-sec. » Propheties de Merlin, fol. 7. Fin qui (dice il De Backer) il RAYNOVARD, Lexique roman, t. II, pag. 112, Paris, 1836. Marco Polo, secondo la lezione francese di Rusticano da Pisa, cap. XXXIX, descrive l'albero secco in questo modo: « En la fin de Perse vers tramontaine, et y a un grandisme plain, ou est l'Arbre-Solque, que nous appelons l'arbre sec, et vous dirai comment il est fait. Il est grans et gros, et l'escorche est d'une part vert, et d'autre blanche et fait ricy (frutti come grandi capsule di ricino) si comme les chastiaus (castagni); mais il est vuit (voto) dedens. Il est jaune comme bois (bosso), et moult fort. » Quest'albero dagli arabi è detto thoulq, o soulq, da una radicale che, secondo il Pauthier, significa - 271 - longus, procerus fuit; nome che accenna insieme all'altezza del tronco, all'ampiezza dei rami, ed alla lunga durata: imperocchè la radice zhoulq vuol dire longevità. Forskal, nella Flora aegyptiacoarabica; parlando della ficus vasta, che è il thoulq, dice: « In libris Arabum botanicis vocatur delb. » E Delb, secondo il Sacy (Relation de l'Egypte) è il platano, il Tchinar dei Persiani. Le lezioni poi dei manoscritti francesi, i quali, invece di foglie verdi da un lato, e dall'altro bianche, pongono scorze (escorche) indicano ancor più svelatamente il platano, che ogni anno rinnovando l'epidermide, questa si stacca dal tronco e presenta i due lati verde e bianco. Leopoldo Delisle, membro dell' Instituto di Francia, afferma che nel medio evo la parola arbre-sec significava « la potence » (palo, o istrumento per misurare l'altezza degli uomini, cc.). Il Mandeville, manoscritto 2810 della Nazionale a Parigi, dice che nella valle di Membre è « un arbre de chein, que les Sarrazins aupellent supe, qu'on appelle l'arbre sech; et dit-on que cet arbre a là esté depuis le commencement du monde, et estoit tous jours vert et feuillu jusques à tant que Nostre Seigneur mourut en la croix et lors il secha... De l'arbre sech dixent aucunes prophésies, que un seigneur, prince d'Occident, gaingnera la terre de promission avec l'aide des crestiens, et fera chanter messe dessoubs cet arbre-sech; et puis l'arbre raverdira et portera fueille..: et combien qu'il soit sec, néantmoins il porte grans vertus; il garist de la cadula, du chinal, et qui eri porte un pou sur lui, ne peut estre enfondez... » Nel Li Jus de Saint Nicholas, si parla di un ammiraglio del « sec arbre; » paese ove « n'a monnoies autres que pierres de moelin: » nel Li Jus du Pelerin, il pellegrino dice: « J'ai esté au sec-arbre. » (Louis Dr BACHER, l'Extrème Orient, Paris, 1877, pag. 364.) Il Lazari (Viaggi di Marco Polo, ce.) pensa che l'albero secco possa indicare l'intero sistema delle montagne del Corassan. Fonda la sua congettura sulla somiglianza tra i suoni « Albros coo » e Albero secco. Albros, o Elbruz, è il nome di quel gruppo di monti; coo (koh) è voce persiana che significa montagna. Anche il Clavijo trovava a Taursi l'albero secco.
Sitografia
Wikipedia - Tabriz
Wikipedia - Ilkhanato
Wikipedia - Abu Sa'id Bahadur Khan
Wikipedia - ILKHANID COINS - Christian Rasmussen Collection
Soldonia
Nome attuale: Soltaniyeh, Iran
Nome: Ut., Hak. Soldania ; Far. Solonia ; Bol. Soldolina; Marc. Soldonia.
Relatio: Cap. III
"Ab hac civitate scilicet Thauris recedens ivi per decem dietas ad quandam civitatem que vocatur Soldonia. In hac civitate tempore estivo moratur imperator Persarum; in hieme autem vadit ad quandam contratam que est supra unum mare quod vocatur mare Bachuc. Hec civitas magna est et frigida in se habens bonas aquas; ad quam civitatem portantur multa et magna mercimonia que illic venduntur."
"Partendo da questa città, cioè da Thauris, andai per circa dieci giornate di cammino fino ad arrivare a una città chiamata Soldonia. Durante l’estate in questa città viene a soggiornare l’imperatore dei persiani. Durante l’inverno invece va in una regione che sta vicino a un mare chiamato mare di Bacuc. Questa città è grande, ma fredda, e ha sorgenti di acque buone. In essa si trovano molte e grandi merci che vi vengono portate e vendute."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo III.
"In questo contesto, con la bolla Redemptor noster del 1º aprile 1318[2], papa Giovanni XXII eresse l'arcidiocesi di Soltania, corrispondente alla città di Soltaniyeh nel nord dell'odierno Iran, che era la capitale dell'Ilkhanato. "
Soltaniyeh. Nel Medioevo era una città principale della regione, sede dell'imperatore persiano durante l'estate.
L'edificio più noto fra le rovine dell'antica città è il mausoleo di Oljeitu. Questa struttura, eretta fra il 1302 ed il 1312, presenta la più antica doppia cupola del mondo, la cui importanza nel mondo islamico è paragonabile a quella della cupola del Brunelleschi per l'architettura cristiana.
Odorico cita anche il Mar Caspio chiamandolo mare di Bacuc (Bachuc), mare di Baku.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo V.=====
- « Col viaggio di dieci diete da Tauris venne il Beato a Soldania, residenza estiva dell'Imperatore de' Persiani, che nell'inverno soggiornava a Bacud, città sul mare, ricca e mercantile. Riferisce il Salmon, che Sultania è nella provincia stessa di Aderbeitzan, lontana da Tauris pel viaggio di sei giornate, o poco più. Il Sanson la pone nella provincia confinante di Eralcatient sulla medesima distanza. - 272 - « Qual fosse Soldania a tempo di Giosafatte Barbaro l'anno 1436, leggesi al cap. XV del suo Viaggio. Ne interpetra il nome, che significa Imperiale, dicendo, che mostrava d'essere stata nobilissima, e che vantava bellissima moschea. La fa grande di circa quattro miglia (la città), col numero di sette in dieci mila anime. Il suo castello era murato, ma rovinato quattr'anni innanzi da un signore, detto Giausa.» (VENNI, note.) Non dice Odorico che l'Imperatore svernasse nella città di Bacud, ma in una città sul mare di Bacud, oggi Caspio. Soldolina è Sultanieh di Persia. Di essa il Padre Marcellino da Civezza dà le seguenti notizie: « Questa città ha avuto sue origini e le prime fondamenta da Carbaganda (altrimenti detto Aldgiaptou, o Khodabandeh) il 1305, un anno dopo, secondo alcuni, o tre, secondo altri, ch'era salito al trono, in mezzo alle ridenti praterie del Councour; divisamento di suo padre Argun, che colto da morte, non giunse a mandare ad effetto. La quale città, bella e magnifica, per le cure del predetto principe surse come per incanto ornata di parecchie moschee; la principale ricca di molti marmi e porcellane dipinte. Ancora vi edificarono superbi palagi i signori, ed un intero quartiere di ben mille case v'innalzò il Visir, con in mezzo grande edifizio e due minareti sopravi, sì capace da esservi dentro un collegio, uno ospedale ed anche un convento, tutti forniti di ricca dote. Eravi inoltre una cittadella con cinta di mura in quadrato, fiancheggiata tutta all'intorno di fossi; ciascun lato ben cinquecento cubiti di lunghezza in pietra lavorata, e di tanta spessura da camminarvi per sopra quattro cavalli di fronte. Di più Carbaganda vi avea fatto costruire un mausoleo nel castello, in forma ottagona, ciascuna facciata sessanta cubiti di lunghezza, con sopravi una cupola dell'altezza di centoventi. E la dimora reale consisteva in un alto padiglione, circondato, con interpostevi distanze, da dodici altri più piccoli, ciascuno con finestra verso il cortile, tutto lastricato di marmo, e di una cancelleria tanto vasta da capire sino a dodicimila persone... Carbaganda... cessò di vivere l'anno 1317, a cui succedette Abud Said... La città in quel sì breve tempo divenne centro d'un grande commercio tra l'Europa e l'Indie, ove mercanti numerosissimi, trattivi dall'amore del guadagno, si recavano da ogni parte delle asiatiche contrade. » (Storia univ. delle Miss. Franc., vol. III, cap. IX). Il 1387 Tamerlano la prese e saccheggiò. Nel secolo decimosettimo si conservava ancora la tomba del fondatore, con le sue magnifiche e colossali porte d'acciaio damascato. Oggi gli Scià di Persia ne han fatta la lor dimora estiva. (YULE, loc. cit.) Il 1318, Giovanni XXII la erigeva a sede vescovile, nominandovi il Domenicano Francesco - 273 - da Perugia, con sette vescovi suffraganei. (RIGHINI, note cit.) Con bolla del primo giugno 1323 il medesimo pontefice eleggeva a quella sede; rimasta vacante, Frate Guglielmo Adam de' Predicatori; ed il 14 febbraio del 1330 si trova concesso il pallio a Frate Giovanni di Cora, già elevato ad arcivescovo di quella città. (Bull. Ord. Praed.) Nel 1393 governava quella sede Frate Bonifacio dei Minori (LE QUIEN, Oriens Christ.); e appena cinque anni dopo Bonifacio IX trasferiva Frate Giovanni dei Predicatori dall'arcivescovado di Nakhschiwan a quello di Sultanieh, ponendo in sua vece in Nakhschiwan il Minorita Frate Stefano Pietro di Seghes, con bolla del 20 novembre 1400. (LE QUIEN, cit.) Il Mar di Abacuc, o di Baku, nominato da Odorico, è il Caspio dei moderni, che ebbe nel medio evo tal nome da Baku, principale porto della sua spiaggia occidentale. Negli Archivi di Genova è memoria di un tal Luchinus Tarigus, genovese, che con altri compagni, senza danaro, partito di Caffa su di una fusta, rimontò il Dan per circa sessanta miglia, ed entrato nell'Edil (Volga), scese nel mar di Baku, e là pirateggiando raccolse ricco bottino. Allora deliberato di far ritorno per terra, abbandonò la nave; ma nel cammino venne spogliato di buona parte delle cose che avea. I Bollandisti chiamano Axan la città sul Caspio, dove, secondo Odorico, l'Imperatore di Persia solea svernare. Che sia Aujan, l'Hujan del Clavijo, non lungi da Tabriz, dove spesso il Khan poneva i quartieri d'inverno, e dove Gazan Khan fondava una bella città ? Ma allora errerebbe Odorico, dicendola sulle rive del Caspio. Risponde forse meglio Actan, sì spesso ricordata nella vita di Timur, come luogo dove aveva in costume di fare le sue fermate. Nella pianura di Mogan presso il Mar Caspio, tenevano i quartieri d'inverno molti imperatori della Persia. (YULE, loc. cit.) Il Padre Marcellino da Civezza, e dietro di lui il De Backer, pensano che questa città sia Baku.
Sitografia
Wikipedia - Soltaniyeh
Wikipedia - Dome of Soltaniyeh
Wikipedia - Arcidiocesi di Soltaniyeh
Immagini
Soltaniyeh dome - Farzad Yousefian, Gonbad Soltaniye, CC BY-SA 4.0
Bibliografia
Journal of the British embassy to Persia; embellished with numerous views taken in India and Persia; also a dissertation upon the antiquities of Persepolis - 1825 di William Price - PDF
Casan
Nome attuale: Kashan, Iran
Nome: Cassà, Vers. mag. del RAM.; Sabba, dove arrivarono i tre Magi, Vers. min. del RAM.; Chasan, MARC; Saba PAL;
Relatio: Cap. IV
"Ad quam dum sic irem per multas dietas, applicui ad civitatem trium Magorum, nomine Casan, civitatem regalem et magni honoris; verumtamen multum eam Tartari destruxerunt. Hec civitas multum abundat pane, vino et multis aliis bonis."
"Dopo aver camminato per molte giornate, arrivai alla città dei tre magi, di nome Casan: è una città regale e di grande onore, ma i tartari vi fecero grandi distruzioni. In questa città c’è abbondanza di pane, di vino e molti altri beni."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo IV.
Marco Polo afferma di aver visitato le tombe dei Magi nella città di Saba, a sud di Teheran, intorno al 1270: "In Persia è la città ch'è chiamata Saba, da la quale si partiro li tre re ch'andaro adorare Dio quando nacque. In quella città son soppeliti gli tre Magi in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co' capegli: l'uno ebbe nome Beltasar, l'altro Gaspar, lo terzo Melquior. Messer Marco dimandò più volte in quella cittade di quegli III re: niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano III re soppelliti anticamente." (Il Milione, cap. 30).
Odorico cita anche Gerusalemme che indica distante 50 giornate da Casan.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo VI.=====
- « Casan appellasi dal nostro Viaggiatore città Reale, di grand'onore, e de' re Magi, che dalla stella guidati vennero in Gerusalemme a tributare adorazioni al neonato Salvatore. Nel Viaggio di Giosafatte Barbaro in Persia, parlasi di Casan, e descrivesi per una città ben popolata, circondata di mura pel giro di circa tre miglia, cui fanno al di fuori nobile ingresso borghi grandi, ove lavori consumansi di cotone e di seta in tanta quantità, che chi in un sol giorno comprarne volesse per cento mila ducati, gli troverebbe. Il Barbaro, col carattere di Ambasciatore della sua Veneta Repubblica, fu in Persia ad Assembei, che n'era signore, dopo il 1471. Il Beato fu in Casan cento cinquanta e più anni innanzi, quando i Tartari dilatavano le loro conquiste. Giovanmaria Angiolello, descrivendo di fatti - 274 - la vita del signor Ussuncassano di Persia, rammenta la città di Casan all'anno 1501, ventidue giornate a Levante discosta da Tauris. Sei giornate è discosto Tauris da Soldanía: Casan adunque è lontana da Soldanía sedici giornate, che accennate vengono dal nostro viaggiatore in confuso e senza contarle: Per multas dietas. Vi è un altra Casan sul fiume Erdil, andando verso il mare di Bachu a man sinistra, luogo comodo per mercatare co' Moscoviti, Polacchi, Prussi e Fiamminghi. La rammentano Giosafatte Barbaro nel suo Viaggio alla Tana, e monsignor Paolo Jovio, delle cose parlando della Moscovia a monsignor Giovanni Rufo, arcivescovo di Cosenza. « Entrando su le persone de' Magi, merita osservazione, che il nostro Beato gli dica partiti da Casan della Partia per andare in Gerusalemme, quando il chiarissimo Padre Don Agostino Calmet nella sua dissertazione de' Magi non dice una parola di questa opinione, dopo averne riferite tant' altre con apparato giocondo d'erudizione circa la patria de' fortunati personaggi. Si conviene collo stesso, che i Magi vennero in Gerusalemme dall'Oriente. Tra i popoli orientali alla Giudea, contano le Sacre Lettere gli abitatori dell'Arabia Deserta, della Mesopotamia e della Caldea. La Partia era poco più 'n su verso Settentrione, ma non affatto fuori del Levante. I Magi erano della stessa professione del famoso Balaamo, che aveva detta la profezia dell'apparizione della Stella: Orietur Stella ex Jacob. Questi abitava sul fiume della terra degli Ammoniti, e la sua professione d'indovino e d'astrologo non si tenne ristretta tra la Mesopotamia, Caldea e Arabia; si dilatò in oltre nella Persia, ove i Magi, come riferisce il lodato Calmet, erano in alta riputazione, il posto occupando di consiglieri del Re; e quando Cambise partì per la sua spedizione contro l'Egitto, lasciò ai Magi dell'Impero il governo, di cui per qualche tempo tennero come padroni l'autorità. Egli pensa ancora, che partissero i Magi evangelici dall'Arabia Deserta. L'Arabia non è lontana dalla Giudea che per il viaggio di otto giorni. Agli Arabi è affatto ignoto il nome de' Magi; e nel Nuovo Testamento, qualora accade far cenno di qualche avvenimento arabo, di questo particolare non si fa ménzione. Se l'oracolo del Salmista, di cui si serve la Chiesa nella festa dell'adorazione, dovesse intendersi proprio dei Magi, sarebbe d'uopo accordarmi una comitiva di re concorsi tutti, chi dall'Arabia, chi da Saba, chi dall'Isole e chi da Tarso, ad adorare il nato Messia. Quindi non vedo difficoltà alcuna a riputar probabile la tradizione trovata dal nostro Beato presso gli abitatori di Casan, che i santi Magi fossero loro signori, o cittadini. Non pochi Padri, cioè, il Grisostomo, l'Autor dell'opera imperfetta, Cirillo l'Alessandrino, Juvenco Poeta, Clemente - 275 - Alessandrino, Basilio, Teofilato, e San Tommaso, citati dallo stesso Calmet e dal dottissimo Serry, scrissero, che i Magi adoratori di Gesù Cristo si partirono di Persia. Potrebbe opporsi, che Casan è discosta da Gerusalemme cinquanta diete, quindi non potevano giungere a Betelemme il dì 6 di gennaio. Ma qual monumento abbiamo de' primi secoli, che ci obbliga a fissare l'adorazione dei Magi in questo giorno? Celebra la Chiesa Latina nelle none di gennaio tre de' più insigni miracoli del Nuovo Testamento, l'adorazione de' Magi, il battesimo di Gesù Cristo, e dell'acqua la conversione in vino nelle nozze di Cana, senza stabilire che succeduti sieno in quel giorno. La Chiesa greca avanti il quinto secolo celebrava universalmente la Natività nel giorno stesso dell'adorazione de' Magi, il 6 di gennaio; ed ora solennizza l'Epifania nel giorno che segue alla nascita del Salvatore. Forse questi due misteri accaddero nello stesso giorno, od uno dopo l'altro? No, certamente. Il punto del loro arrivo in Giudea ha finora esercitati non poco i Cronologisti, come osserva il chiarissimo Calmet. Quei che dalla Persia partir gli fecero, altri gli posero in viaggio due anni innanzi alla nascita del Signore, altri gli dissero giunti in Betelemme due anni dopo, altri, per farli arrivare in tredici giorni, gli provvidero di dromedari, animali leggieri e velocissimi. Ed avvengachè necessario non sia, se non se fargli giungere dal loro paese a Betelemme avanti il termine dei quaranta giorni della Purificazione di Maria Santissima, e da Casan a Gerusalemme senza dromedari bastino trenta gíorni; anche per questo capo la tradizione de' Casanesi scritta dal Beato Odorico, non si rende improbabile. L'eruditissimo Padre Serry stabilisce la loro venuta nella Giudea ai 26 o 27 di gennaio. I1 Beato Odorico riflettendo alla lontananza da Casan a Gerusalemme, e tenendo per fermo che v'arrivassero in tredici giorni, ricorre alla virtù miracolosa del Signore. Non v'è bisogno di miracolo, perchè la Chiesa non ci obbliga a credere accaduta l'adorazione de' Magi il dì 6 di gennaio, « Tenne inoltre il Beato l'opinione, che i santi Magi fossero Re. Gli antichi Padri e scrittori non hanno mai parlato in una maniera chiara e positiva, che gli dichiari Re, come volle Teofilato, o che fossero tre. Niceforo si contenta di dire, che i santi Magi furono illustri e per la scienza e pel potere. Pascasio Radberto, che fiorì nel nono secolo nella Badia di Corbia, è chiarissimo intorno alla dignità Reale de' Magi; e da quel tempo in poi l'opinione divenne quasi comune. Se fossero stati re, San Matteo per maggior gloria del nato Bambino caratterizzati gli avrebbe, siccome non tralasciò la condizione accennare del figliuolo del Regolo risanato dal Salvatore medesimo. Alla - 276 - Chiesa però nulla preme di sostenere questa Real dignità de' santi Magi. Il numero di tre era creduto dappertutto al tempo di San Leone il Grande, come lo suppone ne' suoi Sermoni dell'Epifania. L'Autore dell'opera imperfetta, assieme con Pietro Abelardo, gli vuole fino al numero di dodici, e gli chiama i più sapienti della Persia e amanti de' divinî misteri. I nomi di Gasparre, Baldassarre e Melchiorre sono di nuova stampa e apocrifi; come pure son quelli d'Appellio, Ameto e Damasco; Galgalad, Magalad e Serachim; Atore, Satore e Paratore. » « Cassan, detto ancora Cassian, vien creduto da alcuni il Raga o la Rages degli antichi, ricordata nel libro di Tobia, come città de' Medi, che si dice essere nel monte di Cebatana, il cui sito ancor si dibatte tra' geografi. » (RIGHINI, note, ec.) Kashan di Persia è tuttora assai florida, e trovasi a mezza via tra Ispahan e Téheran, e tra Sultanieh e Iezd, assai rinomata pe' suoi broccati; ed è opinione che più d'ogni altra città di quelle contrade sia infestata dagli scorpioni. L'Herbert parlando dei Magi, li fa anch'egli di Kashan; ma forse lo sa da Odorico soltanto, perchè non cita che lui. La Versione minore del Ramusio pone Saba in luogo di Kashan, accordandosi così in parte con Marco Polo; il quale pure pone a Saba i sepolcri dei tre Magi. Il Polo dice, che uno di essi fosse di Saba, un altro di Ava, e il terzo di Calata-Peristan (castello degli adoratori del fuoco), a tre giornate da Saba. Saba ed Ava esistono ancora tra Sultanieh e Kashan; ma non vi rimangono tradizioni nè memorie dei loro re. L'Herbert nota la varietà delle voci correnti sui Magi. Chi li fa venire da Babilonia, chi da Shushan, chi da Ormuz, chi da Ceilan; si possono aggiungere le tradizioni armene, che accennano ai paesi presso il lago Van. Aitone poi li trae dalla Tartaria Cinese, e il Marignolli dall'Arcipelago Indiano. Forse dovrebbesi leggere Saba invece di Casan? (YULE, loc. cit.) Anche l'anonimo Viaggiatore, contemporaneo d'Odorico, il cui viaggio è stato pubblicato dal signor Jimenez de la Espada nell'originale spagnuolo, e in italiano dal Padre Marcellino da Civezza, ricorda di aver trovato in Colonia di Germania tre sepolcri, che dicevansi dei Magi; e la stessa tradizione intorno ad altri tre sepolcri incontrava in Solin, città del Cataio (Cina). Ecco le sue parole: « En esta Coluna diz que yazen soterrados los tres Reyes Magoos, que adoraron a Ihesu Christo en Beleen; pero que quando fui en el inperio de Cataya en una cibdat que dizen Solin, me mostraron tres monimentos muy enrrados, et dixeronme que eran de los tres Reyes Magoos que adoraron a Ihesu Christo, et que de ally fueron naturales. » (Libro del conoscimento de todos los reynos, Madrid, 1877) - 277 - Anche corre una pia leggenda, secondo la quale Sant'Elena avrebbe disotterrato e recato in Europa le sacre spoglie dei Magi. Tutto questo ci mostra che la memoria di questi grandi personaggi dell'Evangelio si è largamente sparsa per tutto; e dovunque trovavansi sepolcri che in qualche modo lasciassero dubitare che fossero di re orientali, tosto la fantasia dei popoli ricorreva ai notissimi adoratori del Redentore. Può darsi che anche in Kashan esistesse qualcuno dei tanti monumenti tenuti per quelli dei Magi. Si può eziandio avvertire che la frase di Odorico, « civitatem trium magorum », non importa, che proprio in Kashan fossero questi sepolcri, bastando che fossero in quelle vicinanze: come, ad esempio, Odorico stesso dicesi di Pordenone, beuchè il paese suo natale sia Villanuova. Già altrove parlammo delle devastazioni dei Mongoli; non è adunque maraviglia se anche Kashan, secondo Odorico, ebbe a riceverne gravi danni. Questa città gode di temperatura mitissima; le messi vi maturano un mese prima che nelle terre di Coum, Ispahan e Teheran. Nei dintorni è il giardino regale di Baghi-sah, e poco più lungi il famoso castello di Bagh-Sin. (Dizionario geogr. Ital.)
Sitografia
Wikipedia - Kashan
Wikipedia - http://mattinopadova.gelocal.it/cronaca/2010/12/24/news/i-tre-magi-sepolti-a-colonia-1.1237118
Turismo Italia News - A Kashan, in Iran, sulle tracce dei Re Magi: da qui sarebbero partiti per portare in dono oro, incenso e mirra a Gesù Bambino
Gest
Nome attuale: Yazd, Iran
Nome: Gesti, MAGL.; Gest, Vers. mag. del RAM. MARC.; Geste, Vers. min. del RAM.
Relatio: Cap. V
"...Mare arenarum per unam dietam, quod mare est valde periculosum."
"Inde recedens ivi ad quandam civitatem nomine Gest, a qua distat mare arenosum per unam dietam, quod mare est valde mirabile et periculosum. In hac civitate est copia maxima victualium et omnium aliorum bonorum que iam dici possent; potissime autem ficuum illic copia maxima reperitur, uveque sicce et virides ut herba et multum minute illic reperiuntur melius et abundantius quam in alia parte mundi. Hec 125est tertia melior civitas quam Persarum imperator possideat in toto regno suo. De hac dicunt saraceni quod in ea nullus christianus ultra unum annum vivere umquam valet. Multa autem alia illic habentur."
"Partendo poi da qui, andai verso una città di nome Gest, dalla quale il mare di sabbia dista una giornata di cammino. Questo mare è davvero meraviglioso, ma pieno di pericoli. In questa città c’è abbondanza di vettovaglie e di tutti gli altri beni che si possano mai nominare. Soprattutto si trova qui una grandissima quantità di fichi, di uva secca e uva verde, nonché crescono qui erbe minute che sono migliori e molto più numerose che in qualsiasi altra parte del mondo. Questa è la terza città più bella che l’imperatore di Persia possiede in tutto il suo regno. Di essa i saraceni dicono che nessun cristiano vi può vivere più a lungo di un solo anno. Qui si trovano anche molte altre cose."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo V.
Yazd. Odorico potrebbe aver percorso un percorso diretto attraverso il Kurdistan e l'altopiano iraniano. La città più lontana della Persia verso l'India.
Riferisce che il "Mare di sabbia" è solo una distanza di un giorno. Questo mare è probabilmente il deserto Dast-i-Kaviy
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo VII.=====
- « Dubito d'errore nel copista, il quale invece di scriver Gest, avesse a dire Yesd. Da Casan a Gest il viaggio sarebbe irregolare, perchè vedremmo tornare addietro il nostro viaggiatore fino a Koni. Yesd è nell'antica Partia, e Giosafatte Barbaro lo chiama Iexdi, o Iesdi, nelle vicinanze di Casan e di Kom. Egli la descrive per una terra di mestieri di seta, di cotone, cambellotti, e simili, de' quali fornisce in gran parte l'India, la Persia, il Catajo, la Turchia ed altri luoghi. Ella ha un portico grande, attorno al quale sono le botteghe, ove i mercanti di merci si provvedono in abbondanza. Nel moderno Dizionario geografico portatile, Yesd descrivesi città della Persia nell'Iraq, su la strada che conduce da Kerman ad Ispahan, con molte fabbriche di seta. Le donne di Yesd passano per le più belle di tutta la Persia. Ha di longitudine 74 5 e di latitudine 32. Marco Polo descrive questa città da lui detta Iasdi. » (VENNI, note.) La città visitata da Odorico, è veramente « Yezd nel Farsistan, città circondata da un deserto sabbioso, pieno d'assai pericoli » (Padre Marcellino da CIVEZZA, Storia univ. delle Miss. Franc., tom. III, cap. XVI.) Yezd « vien detto Gest ancora dal Tevet, che la tiene per la Suphta di Tolomeo; ma Suphta suol collocarsi dai geografi nella Mesopotamia poco lungi dall'Eufrate. Gest dicesi altresì da alcuni moderni l'antica Gedrosia ai confini della Persia ed India; ma assai diversamente sentiva il dotto Sbaraglia, il quale mi esseri, che niuno di questi può essere il presente Gest, che veramente pare - 278 - l'istesso Jesd, essendo che l'J suole convertirsi facilmente in G, come Jam, Joseph; ed il D, in T. » (RIGHINI, note, cc.) Anche il Barbaro, nel secolo seguente, ricorda questa città come luogo di grandi manifatture di seta, cotoni ed altre cose, che fornisce de' suoi lavori gran parte dell'India, della Persia, del Zagatai; ed è tuttora di molto commercio. Assai strade praticate dalle carovane, convergevano a Yezd, che ne facevano fiorire ampiamente il traffico. Sono poi famosi i fichi, le melegranate, le uve e i poponi delle oasi. La piccola uva passa era notissima in India, dove s'importava in gran copia sotto il titolo di Kishmis, forse da Kish, o Kais, da non confondersi con Kishm sull'imboccatura del Golfo Persico; essendo Kish luogo di scalo per l'India. (YULE, loc. cit.) « Isolata nel suo deserto e lontana dalle vie militari che hanno battuto i conquistatori, fu non solamente asilo sicurissimo del commercio ma eziandio dell'industria: i drappi ivi tessuti colla seta del Ghilan, sono anch'oggidì ricercatissimi dai Turchi e dai Persiani, che li chiamano Iesdi. Leggiamo nel viaggio di Abdulcurrim, di un dono che fece Nadir Scia ad un ambasciatore, consistente in venticinque pezze di broccato di Iezd. » (LAZARI, loc. Cit.). Ed è molto ricercato il delicatissimo vino di Yezd, che si trasporta in gran quantità a Lar e ad Ormuz. Non a torto Odorico ricorda i pericoli del vicino deserto; e benchè la descrizione che ne dà la Versione del Ramusio debba aversi per una esagerazione di qualche copista, pure ha un fondo di vero. Si vedono quivi d'intorno immense rovine prodotte dalle arene, che trasportate dai venti, hanno coperto quei luoghí. (MALTE-BRUN, Précis de la Geogr.); e anche il Tavernier parla di pericoli di morte, che per la mobilità dell'arene possono incogliere a chi entri nel deserto di Yezd. Ricorda inoltre Odorico la vaga voce, che i Cristiani non vi potessero dimorare oltre un anno. Per verità, non sapremmo congetturare di che si tratti. Forse era questa una disposizione dell'Imperatore?
Sitografia
Wikipedia - Yazd (IT)
Wikipedia - Yazd (EN)
Wikipedia - Dasht-e_Lut
Wikipedia - Dasht-e_Kavir
Comum
Nome attuale: Kazerun - Bishapur
Nome: Comerum, YULE; Conium, VENNI; Comum, UTIN.; Coman, MUS.; Comerum, FARS.
Relatio: Cap. V
"Ab hac recedens et transiens per multas dietas et terras, ivi ad quandam civitatem nomine Comum, que antiquitus civitas magna fuit; hec maximum damnum intulit Rome, tempore iam transacto. Eius muri bene quinquaginta miliariorum per circuitum sunt capaces. In ea sunt palatia integra adhuc inhabitabilia, tamen multis autem victualibus ipsa abundat."
"Partendo da questa città e passando per molte regioni in tanti giorni di cammino, giunsi a una città di nome Comum, che anticamente era una grande città. I romani le inflissero grandi danni, in tempi ormai molto lontani. Le sue mura sono estese per una cerchia di cinquanta miglia. In essa vi sono molti palazzi intatti ma non abitabili. Tuttavia c’è abbondanza di molte vettovaglie."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo V.
Qui Odorico sembra essere tornato indietro da Gest o Soldania.
Molti studiosi ipotizzano che Odorico possa avere visto le rovine di Persepoli situata a circa 50 chilometri a nord della attuale città di Shiraz.
Persepoli fu la capitale dell’antico impero persiano degli Achemenidi (550 - 331 a.C.), che nulla ebbero a che fare con Roma, allora ancora nella sua fase di formazione repubblicana.
Bishapur, antica capitale del regno persiano sasanide (224-642 d.C.) risponde alle caratteristiche di città che fece grandissmo danno ai Romani e “dove ci sono parecchi palazzi ancora in piedi, ma non vi abita nessuno” (Relatio, capitolo V).
Bishapur, situata vicino all'attuale Kazerun, potrebbe identificarsi con la Comum di Odorico. La città fu fondata nel 266 dC da Shapur I (241-272), che fu il secondo re sassanide e inflisse ai romani una triplice sconfitta, avendo ucciso Gordiano III, catturato Valeriano e costretto alla resa Filippo l'Arabo. Sono presenti sia a Nagsh-e Rostam che a Bishapur degli rilievi rupestri che testimoniano la disfatta dei Romani.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo VIII.=====
- « Kom una delle più grandi città della Persia, situata in piano, di riso abbondante, di ottimi frutti, e specialmente di melagrane. Nella sua moschea principale vedonsi superbi mausolei con camere d'asilo agl'impotenti a pagare i debiti, ivi nudriti gratuitamente. È distante da Casvin cinquanta leghe: ha di longitudine 69, di latitudine 34, 20. « Da Casan Giosaffatte Barbaro andò a Como, città, egli soggiunge, mal casata, che volge sei miglia, ed è murata; non è terra di mestiero; vive la gente col lavorare la terra, facendo vigne, e giardini, abbondanti di perfettissimi poponi di straordinaria grandezza, - 279 - taluno de' quali pesa fino a libbre trenta, verdi essendo al di fuori, dentro bianchi, e dolci come lo zucchero. « Ambrosio Contarini similmente rammenta Como nel suo Viaggio di Persia fatto l'anno 1474, e descrive il suo sito in piano: città la dice bella assai, circondata di mura fatte di fango, abbondante d'ogni cosa, con buoni bazzari di que' loro lavori e boccassini. Nello scrivere il Beato, che Como apportò gran danno a Roma ne' tempi addietro, probabilmente volle intendere della guerra in cui s'impegnò Crasso, uno del celebre triumvirato, che diviso avea le forze e l'autorità della Romana Repubblica, contro il re de' Parti, e nella quale Crasso restò battuto, preso e decapitato l'anno di Roma 699. » (VENNI, note.) « Marco Crasso fu vinto da' Parti a Carre nella Mesopotamia, non a Com nella Persia, cantando Lucano nel lib. I: . . . Miserando funere Crassus Assirias Latio maculavit sanguine Carras. » (RIGHINI, note.) Ma Kom non può essere la città descritta da Odorico, non avendo nemmeno uno dei caratteri ch'egli le attribuisce. Diffatti il Barbaro la dice città mal casata, di circa sei miglia di giro. Il Colonnello Yule, crede che si accenni alle ruine di Persepoli. Questo nome (egli dice) è variamente scritto; ma la dipintura che ne fa Odorico, e la via che a me pare abbia tenuta, mostrano ch'egli parla di quella famosa città. Comerum è forse il Camara del Barbaro, dove egli trovò i miserabili avanzi dell'antica capitale della Persia, e probabilmente risponde alla Kinara del Rich. Il vasto circuito e le case abbandonate combinerebbero assai bene col breve racconto di Odorico. (YULE, loc. Cit.) Queste ruine di Persepoli sono a 48 chilometri N. E. da Chiraz. Esse si allungano per un'estensione di più di 32 chilometri; e quivi sorgono parecchi villaggi, ed il terreno ne è posto a coltura. I resti del palazzo regale occupano una piattaforma intagliata nel vivo della roccia; il monte ha una serie di spianate, come terrazzi, l'une all' altre sovrapposte, in ciascuna delle quali sono portici e spaziose stanze : vi si ascende per una magnifica scalinata di marmo azzurro, sì larga che dieci cavalieri in fila potrebbero salirla. Gira intorno 1400 metri. (MALTE-BRUN, Précis de la Geogr.) Il Padre Marcellino da Civezza crede di ravvisarvi il Koum-Chah, città che un tempo fiorì assai, e che è ora mezzo rovinata, con larghi spazi vuoti e i bazar abbandonati; essa occupa il luogo dell'antica Obroatis di Tolomeo. Giace in una valle a 15 leghe S. S. E. d'Ispahan, ed è residenza di un Kan dipendente dal governatore d'Ispahan. - 280 - Anche questa opinione risponde molto bene al concetto che ci possiamo fare del cammino tenuto dal Beato. Intorno al detto d'Odorico, che questa città diede gran danni a Roma, crediamo volesse intendere che fosse la capitale della Persia al tempo della guerra con Roma, non già il luogo della disfatta di Crasso. Il vedere una grande città in decadenza poteva facilmente, a torto o a ragione, far credere che essa fosse un'antica metropoli dell'impero Persiano, e con probabilità quella che ebbe a sostenere con Roma aspra guerra.
Sitografia
Wikipedia - Persepoli
Wikipedia -
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Hus
Nome attuale: Sconosciuto. Dezful / Shush ???
Nome:Hus
Relatio: Cap. VI
"Ex hac recedens et veniens per multas terras et civitates, perrexi ad terram Iob nomine Hus, que est cunctorum victualium plena et multum pulcher situs. 126Penes hanc civitatem sunt montes in quibus sunt pulcherrima pascua pro animalibus abundanter; illic etiam melius manna et in maiori copia reperitur quam in aliqua terra que hodie sit in mundo. In ipsa etiam habentur quatuor bone perdices minori quam uno grosso. In ea etiam sunt pulcherrimi senes; ubi homines nent idest filant, mulieres vero non. Hec terra correspondet a capite Caldee versus tramontanam."
"Partendo da questa città e andando attraverso molte regioni e città, giunsi alla terra di Giobbe, che si chiama Hus, piena di ogni genere di vettovaglie e situata in un posizione molto bella. Nei pressi di questa città ci sono montagne in cui si trovano in abbondanza pascoli bellissimi per gli animali. Ivi si può avere anche la manna migliore e in maggiore quantità rispetto a qualsiasi altro paese del mondo. Inoltre, sempre in questa città, si può comperare una pernice per meno di un soldo veneziano. Ci sono anche delle persone anziane bellissime, e qui sono gli uomini che filano la lana, non le donne. Questa regione, verso tramontana, confina con l’inizio della Caldea."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo VI.
Descrive anche il luogo in cui viveva Giobbe biblico, Hus.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo IX.=====
- « A buona ragione scrive il nostro incomparabile Viaggiatore, dopo la partenza da Como, d'aver scorso molto paese per venire a quello di Giobbe. Como è nella Partia antica, e la terra di Giobbe è nell'antica Idumea. « Sem, primogenito di Noè, ebbe un figliuolo col nome di Aram, da cui nacque Hus, il quale occupò una porzione di terra, che da lui si disse terra d' Hus, secondo il costume di que' tempi, ne' quali distingueansi i differenti paesi dal nome del capo di famiglia primo possessore del terreno. Giuseppe Ebreo e San Girolamo scrivono, che fabbricasse Traconitide e Damasco, e stabilisse il suo dominio tra la Palestina e la Celesiria, che corrisponde al Settentrione del deserto della Siria, e del deserto di Gezzire in Arabia a capo della Caldea verso Settentrione. Il paese è montuoso, abbondante di buoni pascoli, ove, eccettuati i porci proibiti dalla legge Maomettana, gli animali sono in gran quantità, e specialmente i selvatici. La manna è delle migliori. Il paese provvede ancora di mirra, incenso e olibano, che gomme sono, le quali stillano dagli alberi. Mancanvi però dell'oro le miniere. « Un moderno scrittore della storia del popol di Dio vuole, che Giobbe vivesse poco prima di Tobia negli anni del mondo 3283, regnando in Assiria Salmansar, e in Israele Osia. Alla costui opinione si può opporre, che nel suo libro non si rammemora mai da Giobbe l'idolatria delle statue, ma solamente l'idolatria degli astri, la quale all'altra precede. Sembra quindi più verisimile, che fiorisse nel secondo o terzo secolo dopo il diluvio. Il paese di Hus non viene giammai nominato ne' seguenti Sacri Libri; indizio, che a tempi di Mosè era passato in signoria ad altre famiglie, le quali cancellato avevano ed abolito l'antico nome. I Re dell'Assiria, della Media e di Babilonia impegnati a dilatare i confini del loro impero, non avrebbono lasciato in pace questo ricco signore, ed egli nella sua storia avrebbe impresso un lampo del costoro dominio. » (VENNI, note.) « Niente meno degna del nome dell'eruditissimo mio maestro si - 281 - è l'altra di lui seguente istruzione. Il nostro Beato, diceva egli, ha qui parlato colla voce comune del popolo, che Hus, ov'egli capitò, fosse la patria di Job Idumeo. Così ancora il nostro Frate Pasquale Spagnolo nella sua Lettera scritta in mezzo alla Tartaria l'anno 1338 (presso il Wadingo all'anno 1342, num. 10) scrive che pervenne ad Organt in fine dell'impero de' Tartari e de' Persiani, detto altrimenti Hus, dov'è, dice egli, il corpo di Job, assaissimo lontano dall'Idumea. Trovando perciò l'accennato mio Maestro, come fece a me vedere sulle carte geografiche, Sus tra Com e Bagdet sul fiume Tigri, pensò potesse essere l'Hus predetto, così allora volgarmente pronunciato e creduto tale dal volgo ignorante; non essendo verosimile che la carovana del Beato passasse da Com della Persia ad Hus della Idumea, che è tra l'Arabia Deserta, la Giudea e l'Egitto, a mezzogiorno, molto distante dalla Caldea. Mi suggerì altresì, che oggidì alcuni vogliono che Hus sia presentemente detto Omps. » (RIGHINI, note.) Quasi simile sulle prime fu anche il pensiero del Colonnello Yule, che tosto volse lo sguardo a qualche città del Kouzistan; provincia detta Huzia e Huzitis dall'Assemani, e dal Magini, Cas, e che nel testo ebbe il nome di Job per un'interpolazione suggerita dal nome della terra. In tal caso Odorico avrebbe percorso il montagnoso paese del Luristan quasi affatto sconosciuto. Rawlinson è il primo europeo che vivesse tra quei popoli e ce ne desse una descrizione (LAZARI, Viaggi di Marco Polo.) Ma quel terreno arido, privo di vegetazione, in alcuni luoghi d'aria malsana, non risponde troppo bene alla vantaggiosa dipintura che ne fa il nostro Viaggiatore. Per la qual cosa il Yule, correggendosi, immaginò che Odorico, prima di scendere in Caldea, avesse retroceduto fino a Mossul presso il Curdistan, e che la città nominata fosse Hazah degli scrittori occidentali, e dall'Assemani creduta una cosa stessa con Adiabene. Ed infatti, le ricche pasture, la quantità delle pernici e delle biade, la floridezza dei vecchi, molti dei quali, come dice il Ritter, raggiungono i cento anni col pieno possesso delle facoltà intellettuali, e ancor vigorosi di forze; tutto accenna al Curdistan. Il filar degli uomini però non ha ancor avuto conferma: ma è noto costume dei paeselli dell'Imalaja. (YULE, loc. cit.) Non so se a questa costumanza accenni il passo seguente del Polo: « Prope hanc civitatem (Mosul) est alia provincia dieta Mus Emeridien, in qua nascitur maxima quantitas bombacis; et hic fiunt bocharini et alia multa; et sunt mercatores homines et artistae. » (Marco POLO, testo della CICOGNANA, dell'anno 1401.) Il De Backer dice a questo proposito: Hulagu, secondo il D'Ohsson, dimorò qualche giorno nelle incantevoli praterie che sono presso a - 282 - Thous; e di queste forse intese parlare il Polo con queste parole, secondo il testo francese: « On chevauche par beaus plains et belies costieres, là où il a moult beaus herbages et bonnes pastures et fruis assez et de toutes choses en grant habondance. » Lo Chardin ci fa sapere, che Mayn al N. O. di Shiraz era tenuta ancor a' suoi tempi come residenza di Giobbe. Main è celebrata per le sue melagrane: vaghissimi ne sono i dintorni, mite il clima, senza eccessivi calori, nè freddi troppo rigidi. Le montagne del Farsistan, benchè al presente siano spoglie di alberi, meno le vicinanze di Shiraz, pure tempi addietro, erano rivestite di belle e ricche boscaglie. Sono anche qui belle e ricche mandre di bestiame, molte manifatture di cotone e seterie. Il nome di Hus in quest'ipotesi dovrebbe aversi per suggerito da Job, e la città di Coprum, o Comerum, s'avrebbe a ritenere che rispondesse piuttosto a Kom-chac che alle rovine di Persepoli, come più distante da Main; perocchè dalla narrazione di Odorico apparisce, che tra Hus e Coprum correva assai distanza. Frate Giordano nel suo Mirabilia descripta, ci fa sapere, di aver trovato un « Ur Chaldeorum, ubi natus fuit Abram », a due giornate da Tebriz. Che sia stato confuso da Odorico Ur con Uz, e Abram con Job? La buona manna di cui parla il nostro Missionario, Frate Giordano la pone tra la Persia e l'India Minore.
Sitografia
Wikipedia - Dezful
Wikipedia - Shush (Susa)
Chaldea
Nome attuale: Sconosciuto. Caldea
Nome: Chaldea
Relatio: Cap. VI, Cap. VII
"Exinde exiens ivi in Caldeam, quod est regnum valde magnum; ad quam dum sic irem, ivi iuxta turrim Babel, que per quatuor dietas distat forte ab ea. In hac Caldea est sua lingua propria. In qua sunt pulchri homines, mulieres vero turpes. Illic homines compti vadunt et ornati ut hic mulieres: qui homines sunt portantes super capita sua fasciola aurea 127et de perlis; mulieres vero solum unam vilem interulam attingentem usque ad genua, habentemque manicas longas et largas, que usque ad terram protenduntur. Hee etiam mulieres vadunt discalciate, portantes serabulas usque ad terram; hee tricas non portant, sed earum capilli undique disparguntur. Hic autem sicut homines post ipsas mulieres vadunt, ita illic post homines mulieres incedunt.."
"Uscendo da Hus andai in Caldea, che è un regno molto grande, e andando verso di essa arrivai vicino alla torre di Babele, che si trova circa a quattro giornate di cammino. Questa terra di Caldea ha una propria lingua. Vi si trovano uomini belli, mentre le donne sono brutte. Qui gli uomini vanno in giro ornati ed eleganti come fanno da noi le donne. Questi uomini portano sul capo delle perle e piccole fasce dorate; le donne invece indossano soltanto una modesta tunica che arriva fino alle ginocchia con maniche lunghe e larghe, che giungono fino a terra. Queste donne vanno scalze e indossano pantaloni che toccano terra. Non portano trecce, ma i loro capelli sono tutti sparsi attorno al capo. Mentre qui da noi sono gli uomini che stanno dietro alle donne, qui invece sono le donne che camminano dietro agli uomini."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo VII.
Identificabile con l'Iraq moderno vicino a Baghdad. Qui passò accanto alla Torre di Babele.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo X.=====
- « La provincia detta Caldea, anticamente fu ristretta tra l'Arabia, Babilonia, il Tigri e l'Eufrate. La terra di Us scorsa dal nostro Beato, corrisponde al capo della Caldea verso tramontana. La Caldea ha il suo linguaggio particolare. Descrive il Beato gli uomini e le donne Caldei ed i loro vestiti. Belli i primi, adorni di ricche fasce d'oro sul capo gli dice; e brutte le seconde con una camicia lunga, che le cuopre fino al ginocchio, larga di maniche fino a terra, nude ne' piedi, con le cerabule che toccavan terra e con i crini sparsi. Una simile descrizione di vestire delle donne di questo paese leggesi presso il Padre Vincenzio Maria di Santa Caterina, Carmelitano Scalzo, nel suo Viaggio ail'Indie Orientali. « Il Beato scrive d'esser passato vicino la Torre di Babilonia, lontana dal suddetto paese quattro diete. L'antica Babilonia si vuole sia il moderno Bagdad, situato alle sponde dell'Eufrate, intorno a cui per molte miglia si scorgono ruine di fabbriche maestose, e di una torre, la quale, dice il lodato Padre Vincenzio, fino al giorno d'oggi è chiamata di Nembrotte. » (VENNI, note.) « L'antica Babilonia era senza dubbio sull'Eufrate, e l'odierno Bagdad è di certo sul Tigri, distante cinquanta miglia dalle rovine di Babilonia, come tutti li geografi dimostrano. Tanto in errore sono - 283 - quelli che tengono essere Babilonia e Bagdad una cosa sola. « (RIGHINI, note.) Il nome Bagdad è persiano, e suona data da Dio. La lingua che vi si parla, è l'araba. Secondo l'Herbert, vi si parla anche il persiano. La Caldea, paese tra Bagdad e il mare, irrigato dal Tigri e dall'Eufrate, fu in antico fertilissimo: oggi è desolato. E terra di grandi memorie, e forse in questo senso Odorico la chiama grande. Discendendo lungo l'Eufrate, il paese piglia aspetto sempre più triste. Seleucia e Ctesifonte, città un dì sì famose, hanno perduta la loro importanza. La gran Babilonia è un ammasso di ruine in vasto deserto. La più grande ed importante di coteste ruine, è il Birs-Nimroud, o Torre di Babel. E a due leghe da Hillah; ha ben 350 metri di giro e 35 di altezza, con in cima un avanzo di torre, 9 metri alta. (MALTE-BRUN, Précis de la Geogr. e MÉNANT, Babylone et la Chaidée.) Bagdad è sul Tigri presso il punto dove questo fiume si congiunge al Scirvan. Sotto gli Abbassidi vide nelle proprie mura fiorire le scienze, le arti, la letteratura, l'industria ed il commercio: ora benchè abbia magnifici bazar, e non meno belle moschee, e sia ricca di memorie religiose e poetiche, non dà che un fioco riverbero di quella luce che per cinque secoli irradiò tutto l'Oriente. Da per tutto dove prevalga il maomettanismo, ed ora anche nell'India, le donne appariscono in peggiore condizione degli uomini; schiave; alle quali se siano agiate, nè anche è consentito uscir di casa. Ecco come Ker Porter (Travels 11, 268) descrive le donne di Bagdad: Le donne del basso popolo vanno fuori per lo più con la faccia velata da un fazzoletto, che lor ricinge la testa; i capelli sciolti, di sotto al fazzoletto, ricadono sulle spalle. Il vestito è come una camicia che giunge fino a' piedi, aperta davanti e di color grigio; i piedi hanno nudi. (YULE, loc. Cit.) La parola scrobullas del nostro testo, è un errore: deve leggersi sarabulas, come hanno altri. Il Righini scrive: « Mi persuase lo Sbaraglia, che qui significar volesse il Beato le braghe, o i calzoni, quasi simili alle tunchinese, al riferir del Padre Marini nella sua Storia del Tunchino. » E il De Backer dice: E questa una parola caldea, che significa « haut-de-chausses », ossia, una forma speciale di pantaloni. E finalmente il Yule: Questa parola (egli dice) nel Du-Cauge è scritta sotto varie forme: « Sarabula, Serabula, Saraballa, Sarabella, Sarabela, Sarabare »; ed altre simili. E come il De Backer, la fa derivare dal caldeo, senza però dire la parola caldea da cui viene, e le dà il significato di « braccae. » Io credo che sia trasformazione dell' arabo Sarwal, Sarawal al plurale, in India più conosciuto sotto il nome - 284 - persiano Shahvar. Da Sarwal gli Spagnuolí derivarono zaraguelles (calzoni a larghe pieghe). E noto come nei popoli maomettani la donna, più che compagna sia serva e schiava dell'uomo: non deve far dunque maraviglia la osservazione di Odorico su questo punto: solo avvertiamo, che qui la lezione del nostro testo latino è evidentemente sbagliata, perchè dà un senso contradittorio. Dice infatti: Viri sequuntur eas; e poi: Posi viros mulieres incedunt. Conviene stare alla versione italiana. La giunta nella Versione minore del Ramusio, in cui si descrive la cerimonia del matrimonio in questo paese, è assai simile a quella che ne dà il Tavernier. (YULE, loc. Cit.)
Sitografia
Wikipedia - Caldea
Wikipedia - Torre di Babele
Ormes
Nome attuale: Hormuz
Nome: Ormes
Relatio: Cap. VII
"Ex hac India recedens et transiens per multas contratas, ad mare occeanum usque perveni. Prima autem terra ad quam applicui vocatur Ormes, que est terra valde bene murata, terra etiam multorum et magnorum mercimoniorum."
"Partendo da questa India e passando attraverso molti paesi, arrivai finalmente al mare oceano. La prima regione alla quale giunsi si chiama Ormes, che è una città con buone mura e vi si fanno molti e grandi affari di compravendita."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo VII.
Hormuz, o moderno Bandar-Abbas. Questo è il punto di arrivo per le carovane trans-iraniane. Odorico la considerava affollata e malsana.
Il frate italiano Odorico scrisse: “Ormes, una città solidamente fortificata (…) era situata su un’isola distante 5 miglia dal continente (…) visitata più di una volta da Ibn Battuta (…) era una città grande e raffinata che spuntava dal mare, e fungeva da mercato per tutti i prodotti indiani, distribuiti da qui in tutta la Persia. Le colline sull’isola erano di salgemma, da cui erano scolpiti vasi e piedistalli per le fonti di illuminazione”.
Abdurrazzak, l’inviato del re Rukh, aveva organizzato un viaggio fino alla corte indù di Vijayanagar, e nel 1442 si trovava a Hormuz; la descrisse come un mercato unico nel suo genere, frequentato da mercanti di tutti i Paesi dell’Asia, tra cui elencò Cina, Giava, Bengala, Tenasserim, Shahr-i-nao e le Maldive.
Ibn Battuta visitò Nuova Hormuz nel 1331-32 e poi nel 1347: “Siamo venuti a Nuova Hormuz, che è un’isola la cui città è chiamata Jarawn. Si tratta di una bellissima ed estesa città, con maestosi bazar, dal momento che è il porto dell’India e del Sind, da cui le merci indiane sono esportate ai due Iraq, Fars e Khorasan. È in questa città che risiede il sultano, e l’isola in cui è situata è estesa quanto il cammino di un giorno. La maggior parte delle sue acque salate e colline di sale, sono chiamate di ‘sale darabi’; con questo producono a mano recipienti ornamentali e piedistalli su cui stabiliscono illuminazioni. La loro alimentazione consiste in pesce e datteri secchi esportati da al-Basra e dall’Oman. Dicono nella loro lingua ‘khurma va mahi luti padishdni’, che significa ‘datteri e pesce sono un piatto regale’. Su quest’isola l’acqua è un bene costoso; ha sorgenti d’acqua e cisterne artificiali in cui si raduna l’acqua piovana, un po’ fuori dalla città. Gli abitanti si recano lì con borracce, che riempiono e portano sulla schiena fino al mare, le caricano sulle imbarcazioni, e le portano in città”. Fonte: https://www.ilfarosulmondo.it/hormuz-alla-scoperta-delliran/
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XII.=====
- « Indi scorrendo molte contrade, venne al mare Oceano, ed il primo paese in cui s'incontrò, fu Ormes, oggi chiamato Ormus. Questo è un isola nel golfo di Persia, la più nobile di quante sieno bagnate da quell'acque, e già tempo la più - 286 - ricca per la pesca delle perle. La dominarono i Portoghesi, a' quali fu tolta da' Persiani l'anno 1622, a suggerimento degl'Inghilesi; e nelle loro mani è tuttavia. Quivi il caldo è tanto eccessivo, che gli abitatori, quando vi passò il Beato, per poter vivere si ungevano tutto il corpo; in oggi si ritiran ne' boschi vicini, e s'attuffan nell'acqua fino al collo. Ormus è di longitudine gradi 75, e di latitudine 27. « Costumavano gli Ormusini certi navigli detti Iasse, cuciti di solo spago senza alcun ferro. Marco Polo gli dice pessimi e pericolosi; perchè le tavole non si possono unire co' chiodi: tanto son fragili. Si forano quindi leggermente nell'estremità con un succhiello, e si serrano o con il legno, o con un filo grosso, cavato dai scorzi delle noci d'India. » (VENNI, note.) Il Venni confonde qui l'isola con una città di questo nome su le spiagge del Golfo Persico. Ormus è l'antica Armuzza, sul continente, di fronte all'arida isola, la cui città omonima, quando nel 1507 il valoroso Albuquerque l'ebbe per forza d'arme tolta ai principi indigeni, addivenne sì fiorente che vinse in isplendore ed in importanza la città continentale. Ed infatti, dal racconto del nostro Beato non apparisce punto che si tratti di un' isola; ma piuttosto il contrario. E così nel racconto del Polo, che la riguarda come città di terra ferma, e le dà il nome di Cormos; voce più vicina alla maniera onde la pronunziano i Persiani. Tolomeo la chiama , e in qualcuna delle sue carte, secondo che avverte il Yule, si trova anche l'isola di questo nome. Secondo il D'Herbelot, essa ebbe tal nome da Ormisda, figliuolo di Sapore. Ormuz sul continente fioriva ancora nel nono secolo. Questa città, scrive il geografo Persiano Ibn-Haukal, è grande emporio di commercio per il Kerman, ed il porto principale della provincia. Abulfeda nato il 1276 e morto l'anno stesso in cui trapassò Odorico, forse poco dopo che questi l'ebbe visitata, scriveva: « Qui eam vidit nostro hoc tempore, narravit mihi aliquis, antiquam Hormuzam esse devastatam a Tartarorum incursionibus, et eius incolas transtulisse suas sedes in insulam in mari sitam, Zarun dictam, continenti vicinam, in antiquae Hormuzae occidentem. Hormuzae nil superesse, nisi parum quid vilis plebeculae. » Segno che allora appunto per cagione dei Tartari era subitamente decaduta: ciò però non contraddice a quanto afferma Odorico, che, cioè, al suo tempo fosse ancor bene in assetto; essendo stata subitanea la causa della sua rovina. Secondo il Malte-Brun, questa città risponderebbe all'odierna Minab. Al cadere di Ormuz sul continente, crebbe rapidamente la fortuna della città sull'isola. Un vent'anni, o poco più, dopo Odorico, troviamo - 287 - che l'anonimo autore del «Libro del conoscimiento de todos los reynos», la chiama la « grand ciudad... Hormixio; » e già comparisce sotto questo nome nelle carte dei fratelli Pizigani del 1367, e nella carta Catalana del 1375; e il Barbaro nel suo Viaggio in Persia il 1471, la trova « grande e ben popolata. » Venuta nel 1507 in potere dei Portoghesi, sorse a maggiore grandezza. Ma il 1622 loro la ritolse Scia Abbas con l'aiuto di una squadra inglese, e d'allora perdette quasi tutta la sua importanza. Ora entrambe le due Ormuz appartengono al Sultano d'Oman (Maskate), che dall'isola trae un annuo reddito per le saline che vi sono. Che ad Ormus in certi tempi dell'anno faccia un caldo eccessivo, è cosa fuor di dubbio. Il vento Samum, flagello del deserto, lì più che altrove esercita la sua terribile influenza sugli uomini e sugli animali, cagionandone la morte fra atroci tormenti. (Chardin, Il.) Tutti i viaggiatori fanno parola del calore che vi si soffre. Il Polo ha queste parole: « L'estate non dimorano nella città; chè tutti morrebbero pel soverchio calore; ma si ritirano alle campagne, dove hanno verdeggianti giardini di fresche acque irrigati. Perchè sappiate che spesso durante l'estate viene dai terreni sabbiosi che circondano questa pianura, un vento così eccessivamente caldo, che toglierebbe la vita agli uomini, se al primo suo soffio non s'immergessero nell'acqua fino alla gola. » (Polo, trad. del LAZARI.) E il Della Valle nel gennaio del 1625 scriveva: « In certo tempo dell'anno le genti di Ormuz non potrebbero vivere, se non stessero qualche ora del giorno immersi fino alla gola nell'acqua, che a questo fine in tutte le case tengono in alcune vasche fatte apposta. » (Viaggi in Persia.) Intorno agli strani effetti del caldo in Ormuz di cui fa menzione Odorico, pensa il Yule che si tratti del male dell'ernia, confuso col guinea-worm, che un tempo prevalse in quelle località, o che fosse il guinea worm, da lui non ben conosciuto. Le navi senza ferro son ricordate anche dal Polo e da Frate Menentillo de' Predicatori nella sua lettera a Frate Bartolommeo da San Concordio, in cui compendia una lettera del celebre Francescano Frate Giovanni da Montecorvino. Ecco come ne parla Frate Menentillo: « Le loro navi sono molto fragili, distorte, senza ferro e senza chaligatura, et sono cucite con fune siccome vestimento; onde se un solo filo si rompe in uno luogo, vaccio si rompe; onde ogni anno si racconciano una volta lo meno, e più, se vuole navigare; e hanno pure uno timone fragile e sottile come una tavola, di larghezza di uno gomito, in mezzo della poppa; e quando deono girare, con grande pena girano; se lo vento è ponente non ponno girare. - 288 - Vela hanno una, et un albero, et sono vele di stuoie e di miserabile panno. Le funi sono di resta: ancora hanno pochi et non buoni marinai, onde molti pericoli vi corrono; sicchè si dice che quelle navi che vanno sane e salve, Dio le governa, et l'umano artificio poco vi vale. » (Manoscrit. della Laurenz. di Firenze, plut. LXXVI, n. 74). Ed il Le Gentil si esprime così: « Les bateaux se nomment chelingues; ils sont faits exprès; ce sont des planches mises l'une au-dessus de l'autre, et consues l'une à l'autre, avec du fil fait de l'écorce interieure du cocotrier (noce di cocco); les coùtures sont calfatées avec de l'étoupe fait de la meme écorce, et enfoncée sans beaucoup de facons avec un mauvais couteau. Le fond de ces bateaux est plat et forme comme les bords; ces bateaux ne sont guères longs que larges, et il n'entre pas un seul clou dans leur constructions. » (Voy. I, 540.) Intorno all'osservazione del da Montecorvino, che queste navi erano governate da un timone solo, si può ripetere quello che il Lazari diceva di Marco Polo, che fa altrettanto. « Potrebbe apparire, scrive il chiaro autore, una osservazione superflua, che una nave abbia un solo timone; ma riflettasi che i prao che coprono i mari del più rimoto Oriente, sono d'ordinario provveduti di due timoni, o camudis. Hanno il timone, scrive il Pigafetta, simile a una pala di fornaio, cioè una pertica con una tavola in cima; e doppio essendo questo timone, o remo, fanno a piacer loro di poppa prora. » Circa il nome « jasse » nota il Righini, che è una « sorta di nave usata eziandio nelle isole Maldive per rapporto de' moderni viaggiatori. » Il De Backer poi dice, che « c'est le yacht des Anglais. » (Extrème Orient); e il Yule ne fa derivare la voce dal Persiano Iahaz. Il manoscritto della Palatina ha in questo luogo una variante non riferita da nissun altro codice, che riguarda i costumi delle gente di Ormuz e che porge qualche analogia con quello che ne racconta il Polo.
Sitografia
Wikipedia - Hormuz
Wikipedia -
Tana
Nome attuale: Thane / Mumbai
Nome: Tana
Relatio: Cap. VII, Cap. VIII
"In hac contrata homines utuntur navigio quod vocatur iase, sutum solummodo spago. In uno istorum navigiorum ego ascendi, in quo nullum ferrum potui in aliquo reperire. In quod dum sic ascendissem in viginti octo dietis me transtuli usque ad Tanam, in qua pro fide Christi quatuor fratres passi fuerunt martyrium gloriosum.
Hec autem terra multum bene est situata. In ea magna copia panis, vini et arborum reperitur. Hec terra antiquitus fuit valde magna: nam ipsa fuit terra regis Pori, qui 129cum rege Alexandro prelium maximum iam commisit. Huius terre populus idolatrat: nam adorant ignem, serpentem et arbores. Hanc terram regunt saraceni, qui eam ceperunt violenter, nunc subiacentes imperio Daldili. In hac reperiuntur diversa genera bestiarum, in qua potissime sunt leones nigri in maxima quantitate; sunt etiam ibi simie et catti maimones et noctue ibi magne sicut hic habentur columbe; ibi etiam mures sunt ita magni sicut hic sunt scerpi, ideoque illic canes capiunt mures, quia murelegi ad hoc nichil valent. In hac etiam contrata quilibet homo ante domum suam habet unum pedem fasiolorum ita magnum sicut hic esset una columna; hic pes fasiolorum minime desiccatur, dummodo sibi exhibeatur aqua."
"In questo paese gli uomini si servono di piccole imbarcazioni che chiamano jasse e sono cucite soltanto con lo spago. Su una di queste sono salito anch’io e non vi potei trovare nessun pezzo di ferro. Dopo essere salito in uno di questi battelli, in ventotto giorni mi trasferii a Tana, una città nella quale quattro nostri fratelli patirono un glorioso martirio per testimoniare la loro fede in Cristo.
Questa regione è in una posizione molto bella. Vi si trova abbondanza di pane, di vino e di alberi. Nell’antichità questa regione fu molto grande, infatti costituiva il regno di Porro, che ingaggiò grandi battaglie contro il re Alessandro. Il popolo di questa terra è idolatra: infatti adora il fuoco, il serpente e gli alberi. I saraceni governano questa terra, avendola conquistata con la violenza, ma ora sono sudditi dell’impero di Daldilo.
In questo paese si trovano diverse specie di animali, fra i quali ci sono soprattutto leoni neri in grande quantità. Ci sono anche scimmie e gatti mammoni e pipistrelli grandi come le colombe da noi. Ci sono anche dei topi grandi come serpenti, perciò qui sono i cani che vanno a caccia dei topi, in quanto i gatti non sono capaci di prenderli.
In questa regione poi ogni uomo davanti alla propria casa ha un gambo di fagiolo grande come una colonna. E questo gambo non si secca per niente, purché venga innaffiato con l’acqua."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo VII.
Una città sull'isola di Salsetta, vicino alla moderna Bombay. Recupera le reliquie di quattro frati francescani giustiziati dai musulmani nell'aprile del 1321.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XIII.=====
- « Col viaggio di ventotto diete giunse il Beato alla città di Tana, diversa dall'altra posta sul mare delle Zabacche. Egli la descrive per una città ben situata, abbondante di pane, vino ed alberi. Il nominato Padre Vincenzio Maria la descrive comoda, assai, tra Saratte e Ciaul, difesa da quattro piccoli castelli, due de' quali son fondati sopra i scogli dell'acqua. Ha un canale di facile navigazione per la sua corrente. Al gonfiarsi del mare si va a Tana, e al ritorno dell' acque si va a Bombaino. Le sue terre abbondano di zucchero, ed i canneti crescono più alti e più grossi di quelli di Sicilia. Al nostro Beato fu raccontato, essere stato luogo di riputazione per la residenza del re Porro che guerreggiò con Alessandro - 289 - il grande. Il Salmon scrive, che nella provincia di Chitor, e nella capitale di questo nome, posta ne' stati del Mogol, risiede il Raja-Rane, il quale vanta la sua discendenza da Poro, già monarca d'Indostan. Il Beato Odorico trovò i popoli di Tana tutt'idolatri, adoratori del fuoco, de' serpenti e degli alberi. La città era stata presa con violenza dai Saraceni, che allora sottomettevano Doldali. Nel Dizionario geografico non vi è Doldah; trovasi Doltabat, città degli stati del Mogol, con la miglior fortezza dell'Impero, nella provincia di Balagate, di longitudine 94 30, di latitudine 18 40. L'altre volte lodato Padre Vincenzio Maria ne' suoi Viaggi all'Indie Orientali scrive, che la religione più dominante ne' stati del gran Mogol sia il gentilesimo, d'invenzione diversa dall'antico gentilesimo greco e romano. I dottori, presso cui è riposta l'esposizione della Mitologia, portano il nome di Brahamani, discesi da quegli antichi Brahamani, o Ginnosofisti, professori di filosofia morale, rammentati da Plinio, da Strabone, da Eusebio, Sant'Agostino, San Girolamo ed altri antichi Padri e scrittori. In oggi sono universalmente ignoranti, astuti, e al più dediti alla fisonomia e superstizioni, facendola da sacerdoti ne' loro Pagodi. Contano deità senza numero, nè hanno orrore a tributare le loro adorazioni ed ossequi agli elementi, ai serpenti, alle bufale, ai bovi, alle piante e alle pietre. La vacca presso costoro è in altissima stima. Si lavano con la sua orina, immaginando di cancellare con essa i loro peccati; si sporcano il viso con lo sterco della stessa, e muoiono quieti e contenti, se possono spirare tenendo in mano la coda di questo animale. Siccome ammettono la metempsicosi, pensano alcuni che le anime de' Brahamani passino ne' corpi delle vacche, e da queste ne' figliuoli de' lora sacerdoti. « Perchè le altre nazioni i bovi non uccidano e le vacche, le riscattano con somme grossissime di danari, o con preziosi diamanti; quindi dalla brutale stolidezza Indiana prendon motivo gli Olandesi ed Inglesi di trarne noti picciol guadagno. « Degli animali, che nascono ne' paesi Indiani, e della loro grossezza e differenza da' nostri, tratta a lungo il lodato Padre Vincenzio ne' suoi Viaggi. Scrive, che le nottole crescono poco meno di un gatto, simili ad una piccola volpe nel pelo, nel capo, nelle orecchie, nelle mammelle e ne' denti. I Portoghesi le mangiano, e con i migliori piccioni le paragonano. De' sorci veduti dal nostro Beato, grossi al pari dei nostri cani, si avvera quanto scrisse Ammiano Marcellino, che gli Unni si vestivano delle pelli de' sorci. E disse Seneca, che gli Sciti in gran parte si vestivano con la pelle delle spalle di questi animali. Di sorci sì grandi fa menzione inoltre il Padre Filippo della Santissima Trinità, - 290 - che fu Generale de' Carmelitani Scalzi; e delle nottole il Magini, parlando del Malabar. Delle piante de'fagiuoli colà dal Beato Odorico vedute grandi come una colonna, afferma il Cadamosto averne vedute simili nell'Affrica nel regno di Senaga. » (VENNI, note.) Tana è un'antica città ai confini settentrionali dell'isola di Salsetta; fu capitale del Konkan e porto di mare di assai importanza; ora vinta di gran lunga da Bombay. (YULE, loc. cit.) Il Malte-Brun la dice situata in una contrada bellissima a vedere. (Précis de la Geogr.) E Abulfeda scriveva: « Tanah est in al-Guzurat, ipsi ab Oriente; ab Occidente, Maibadzi. Filius Saidi dicit eam esse ultimam urbem provinciae 'l Lar, celebratam sermonibus mercatorum. » (ABULFEDA, Tab. XIV.) Circa l'asserzione che questa Tana fosse la città del famoso re Poro nota il Righini: « Che la Tana sia stata sede del re Poro lo negherà chiunque attentamente (come a me indicò lo Sbaraglia) leggerà Quinto Curzio al libro VIII e IX. Nell'India di qua dal Gange vi erano molti re, fra' quali Poro regnava di là dal fiume Idaspe, ora Rowey, d'assai più in su e lontano dal mare, appresso il quale sta la Tana, che forse a quel tempo non era stata ancor fondata, perchè nè Strabone, nè Plinio, nè Tolomeo, che vissero assai tempo dopo, fanno di essa alcuna menzione; talchè può dirsi città « medii aevi » o dei secoli di mezzo. » (RIGHINI, note.) II Yule dice: Balbi Gaspero nel 1580 scriveva, che la caverna dell'isola di Elephanta sia stata fatta da Alessandro Magno per segnare il limite delle sue conquiste. Pare questa una storia maomettana applicata per errore a Tana. (YULE, loc. cit.) Il Professore De Gubernatis ha: « La concordia di parecchi nostri viaggiatori nel riferire la tradizione della presenza di re Poro presso Bombay, e di Alessandro costruttore delle grotte di Salsetta, può non essere indifferente, e lasciarci sospettare che il regno di Poro veramente si estendesse alla Tana Dekhanica fino alle bocche dell'Indo. » (Storia dei Viaggiatori Italiani, suppl. al Il cap.) Intorno al nome Daldili, impero a cui era allora soggetto il Malabar, nota acconciamente il Yule, doversi leggere non Daldili, ma Dili; e così forse dettò Odorico; perchè anche Frate Mauro nella sua carta segnò con assai precisione la posizione di Dilli, scrivendovi: « Deli, cittade grandissima »; e nella rubrica: « Questa cittade nobilissima za dominava tuto el paese del Deli, over India prinza »; e di contro alla città d'Here (Herat): « Quella era za sotto la signoria del Deli. » L'aggiunta del Dal, o di altro articolo simile, è fatto ripetuto assai di frequente in geografia. Così Hili, antico porto del Malabar, fu chiamato Deli: il Polo cambia il nome Laori in Dilivar, e quello - 291 - di Aias, porto sul golfo di Scanderum, in Laias: al nome King D'or, voltato in latino, fu data la forma Darius: il Mandeville chiama terra di Dengadda, e lago di Dasfetide, la terra d'Engaddi e il lago d'Asfaltide; ed anche nei varii testi d'Odorico troviamo sostituito al Talay, nome tartaro del Yangtse-Kiang, il nome Doltalay. Inoltre un arcivescovo inglese di Palermo, che si crede avesse il nome di Walter (o' the) Mill, venne chiamato Gualterus Ofamilius. Altrettanto forse è avvenuto della parola Daldili. E talvolta accade il caso inverso. Così gli Arabi chiamano Azar il Lazzaro del Vangelo: negli antichi scritti italiani trovasi, invece di Germania, o Lamagna, La Magna: gli Inglesi dalla parola portoghese Laranja, corruzione dell'Indiano Naranja, hanno fatto Orange, e il latino moderno Aurantia. Del resto è verissimo che nei primi anni del secolo XIV la costa occidentale ed il Deckhan erano soggette ai Khilji, re di Deli. Trovo, in fatti, nella Storia de' Viaggiatori italiani del De Gubernatis: « La prima invasione del Dekhan, per parte de' Maomettani, data dall'anno 1294, in cui il principe Allaudden (re del Dilli) penetrò, conquistando, fino a Daula tàbàd (Devalapàtà, Devagiri), e, solamente saccheggiando, fino al C'olamandala. Frattanto il Guzerate veniva nuovamente sottomesso; ma nel 1320, per opera d' un suo paria, esso stesso preparava la riscossa, indeboliva la dinastia regnante, e preparava la via al sollevamento di Glzoy, capo della terza dinastia afgana che dominò nell'India, la quale nel 1323 sottometteva alla sua signoria i1 Telingana, ossia il C'olamandala. » (DE GUBERNATIS, Storia dei Viag. italiani, cap. III) Gli Indiani vestono in guise svariatissime, secondo la condizione delle persone; e alcuni di questi vanno pressochè nudi. (MALTE-BRUN, Précis de la Géogr.) E nella lettera di Frate Menentillo si legge: « Vanno a piedi discalzi et nudi, portano una tovaglia intorno alli membri vergognevoli: li garzoni et le fanciulle infino a otto anni nulla cosa portano; ma così c'restano nudi, et vanno come dal ventre della madre uscirono. » L'adorazione del fuoco era in uso presso i Parsi, setta dell'India. Tale costume ebbe la sua origine dai Persiani; e Zoroastro lo perfezionò, stabilendone nello Zend-Avesta i dogmi e i precetti. « Lo si ritrova oggi ancora in alcuni siti remoti dell'Indostan. » (Dizionario universale di geografia, storia e biografia, per TREVES e STRAFFORELLO.) Intorno al culto del serpente, trovo nel Malte-Brun il tratto seguente: « Le serpent royal ou le boa, espèce dont M. Anquetil foula un individu long de quarante pieds, jouit dans plusieurs cantons d' une adoration divine; celui qui habite près Sumboulpour dans une grotte, - 292 - rendait encore des oracles il y a peu d'années. » (Précis de la Geogr.) Ed intorno al culto degli alberi, dice il Padre Vincenzio Maria da Santa Caterina (Viaggio all' Indie, lib. III, cap. XXI): « Sopr' il tutto maggiore è la stima che fanno d' una pianta detta Barè... Questa, per essere molto copiosa d' humore, dalli rami più grossi produce certe radici tenere a guisa di silappe, le quali calando fino a terra, dove giungono al suolo l'afferrano tanto tenacemente e s'ingrossano, che moltiplicando il tronco alla medesima pianta, questa si spinge ad occupar tanto sito, che talvolta darà ricetto a molte migliaia di persone; trovandosi tal una che averà dieci, dodici e quindici grossissimi tronchi, li quali potranno a pena essere abbracciati da tre o quattro huomini. Per questa mostruosità, ma specialmente per la vecchiezza grande nella quale si mantiene, la tengono in tale venerazione come se fosse una divinità terrena; perciò all'intorno del tronco maggiore vi fabbricano amplissimi, alti e molto belli piedistalli di pietra viva, con molti ornamenti di cornici ed altre fatture di non poca stima, sopra li quali offrono frequenti le loro oblationi. Nè mai tagliano o toccano col ferro li suoi rami, stimando che risentita la divinità in quella nascosta, causi subito cecità o dolori gravissimi. Nel cielo credono vi sia una di queste piante, detta Colparaquiu, di tanta grandezza che niuno de'mortali la puole misurare; la quale dicono che dia ad ognuno quanto vuole e sa desiderare, non restringendo la fecondità solo alli frutti della propria specie, ma dilatandola a quelli d'ogni altra, per cibo e delitia de' beati; per il che stimandola degna di veneratione, facilmente s'inchinano ad adorarla ancora nelle terrene, come participanti del medesimo privilegio. » Secondo il De Gubernatis, questo sarebbe stato costume dei Baniani. (Storia dei Viag. ital. supl. al II cap.) Il testo della Palatina ricorda anche il culto dei pesci, del sole e della luna. I Bramini, infatti, oltre una moltitudine di Dei primari, ne hanno moltissimi di secondari, che corrispondono ai semidei del paganesimo; e nel Viaggio del sopra nominato Frate Vincenzio trovo: « Il sole e la luna, sebbene non li predicano per Dei, li ossequiano con tutto ciò con tanta stima, che il principale loro culto pare ordinato per la veneratione di questi pianeti. Il primo dicono fosse formato dalli quattro elementi uniti in una massa tanto soda e lucida che mai non si risolverà, e co' suoi raggi darà sempre luce all'universo: credono che stia sopra d'un cavallo risplendente e leggiadro, col quale passeggi in continui giri per il cielo dall'Oriente in Occidente, nascondendosi la notte, non sotto terra, ma dietro di una montagna detta Mahmeru, quale pongono nel centro della terra, divisa in mille et otto monti, tutti d'oro massiccio, la cui ombra - 293 - basta per oscurare l'universo; conservando sempre una luce tanto gioconda in sè stessa, onde fra le sue valli pongono diversi luoghi di felicità. Non fabbricano templi a questo pianeta, nè gli consacrano altari... Vedendo i primi raggi, cominciano ad adorarlo... Sciplto che è dall'orizzonte, cominciano l'orazione... La luna... credono, come anco il sole, animata... Celebrano il novilunio e plenilunio con grande solennità..., spendendo tutto quel giorno in giuochi, feste e danze con interporre molte riverenze e venerationi al cielo. La notte portano li idoli in processione, chi all'incontro delle chiese, altri per i villaggi, con suono di piffari, trombe, tamburi e molti lumi. » (Viaggio, cit. lib. III, cap. XXI.) Potrebbe anche essere che Odorico intendesse parlare dei Parsi, o Guebri, che abitano nell'isola di Bombay e il Guzérate. Essi infatti adorano il Sole ed il Fuoco, seguitatori come sono delle dottrine di Zoroastro, di cui conservano i libri. Essi sono i più ricchi del paese, e quasi tutto il commercio è in loro mano. Il testo Palatino aggiunge anche la descrizione del rito del matrimonio, degli usi funebri, degli alberi che danno il Loahc, e dei buoi. Circa il rito del matrimonio, osserviamo che anche nella lettera di Frate Menentillo., da noi nominato di sopra, si nota, che « in nell'anno una volta solamente si maritano; » e in quanto ai riti funebri, il Professore Angelo De Gubernatis crede di ravvisarvi i costumi de' Parsi. (Storia dei Viag. ital., loc. cit.) Gli alberi del Loahc evidentemente sono le palme, da cui, com'è noto, si trae spiritoso liquore; e il nome Loahc, è (dice il Yule) l'antico termine medico Lohoc o Loch, che significa essenza, estratto; e dicerto corrisponde al vocabolo arabico « Rühh », come nota anche il Badger; la qual voce suole pronunziarsi Rüahh, e significa spirito, essenza. Il bue descritto dal Beato, è (secondo il De Gubernatis) il toro braminico. Anche il Malte-Brun parla dell'arni, specie di bufalo d'enorme altezza e di lunghissime corna (Précis de la Geogr.); ed il Padre Vincenzio rammenta, come degne di nota, « le corna grandissime, di due e tre cubiti di lunghezza, larghe fino ad un palmo e mezzo di diametro. » (Viag. cit., lib. IV, cap. XII.) Leoni in India non sono, benchè il Terry pretenda di averne veduti nelle Malwah; ma vi ha grande copia di tigri, tanto che il Malte-Brun la dice la vera patria della tigre reale: essa vive principalmente nel delta del Gange, e le sue varietà si stendono nel Deckhan, nel Tibet e nell'Indostan. (Précis de la Geog.) I leoni neri, adunque, di Odorico, sono, dicerto, le tigri. Anche il Polo (nota il Yule) chiama lioni le tigri; e « nigri leones » per tigri si trova usato nella traduzione in latino della Vita di Timur di Arabshah. (I, pag. 466). E anche Frate Giordano, nel suo libro « Mirabilia », nomina i nigri leones come animali di questa parte dell'India. - 294 - L'India è veramente molto abbondevole d'animali. Il Malte-Brun, che ho sotto gli occhi, nomina tra i feroci, gli orsi, le iene, i lupi, i serwal, il karakal, la tigre, la pantera, grandi varietà di serpenti, e più altre bestie. Anche Lazzaro Papi, nelle sue Lettere orientali (Lucca, 1825), ricorda « i pipistrelli di maravigliosa grandezza; e molto grossi e fieri sorci, detti bandicut, che un gatto non s'attenta d'assalire »: e il Malte-Brun, proprio come Odorico, parlando di questa specie di topi, detti jerboa, topi saltatori, o topi a due gambe, aggiunge: « C'est aux chiens et aux chasseurs des rats de profession que l'ori doit la diminution momentanée de leur nombre. » (Précis de la Geogr.) Il Papi citato, nella medesima lettera, parla delle varie specie di scimmie, da lui incontrate in quei luoghi; e il Malte-Brun asserisce che vi sono i gibboni, i maudis, i vella-kuranga, i koringurangas, e dà per accertato, che tempo addietro fossero in numero grandissimo. Il rispetto e la quasi venerazione che hanno dagP Indiani, specialmente Bramini, gli ha conservati, e anch'oggi devastano i campi, rovinandone le coltivazioni. Il catti magni del testo nostro, sta per il catti maynzones di altri codici, a significare una varietà di scimmie. La maggior parte dei manoscritti latini e italiani parlano, alla fine di questo Capitolo, di una pianta come fagiuolo, che gli abitanti coltivano dinanzi alle lor case. Intorno a tale strana costumanza nota il Yule: Benchè il testo sia un po'oscuro e monco, apparisce chiaro che qui si parla del sacro Tulasi, o Basil (Ocymum Sanctum). Ed ecco quel che ne dice il Padre Vincenzio Maria (Viaggio cit. lib. III, c. XXI,): « Quasi tutti, principalmente quelli del Nort, adorano un' herba simile al nostro Basilico gentile, d'odore più acuto, quale essi chiamano Collò; perciò ognuno avanti la propria casa conserva una piccol'ara, cinta di muri d'altezza d'un mezzo braccio, nel mezzo della quale alzano certi piedistalli come torrette, ne'quali coltivano quest'herba con gran diligenza, recitando avanti di essa più volte al giorno le loro preci, replicando frequentissime prostrazioni, hor danzando intorno, hor spargendola con acqua; nel che consumano gran tempo con cantilene ed altri segni d'ossequio. Su le ripe de'fiumi dove si lavano, negli atrii de' loro Pagodi parimente ne nutriscono molte, credendo che sia sopra modo grata et accetta alli loro Dei, ma singolarmente a Gananedi, quale dicono che specialmente si compiace di dimorare in quelle. » E forse si accenna anche al Baré, di cui recammo di sopra la descrizione del medesimo Padre Vincenzio Maria; pianta che, secondo Lazzaro Papi, nelle sue Lettere orientali, vien detta Al-Moron dai Malabari, Banian dagli Europei, Batta in sanscrito, e da Linneo, Ficus Indica. Anche quest'albero, scrive il Papi, « è spesso piantato intorno alle case e alle pagode, o templi. »
Minibar
Nome attuale: Malabar, costa sud occidentale dell'India
Nome: Minibar
Relatio: Cap. IX
"Ut autem sciamus quomodo habetur piper, sciendum est quod in quodam imperio ad quod applicui, nomine Minibar, nascitur ipsum piper et non in aliqua alia parte mundi nisi ibi. Nemus enim in quo nascitur continet in se bene decem et octo dietas, et in ipso nemore sunt due civitates: nomen unius est Flandrina, alterius vero Singuli."
"Per conoscere come si coltiva e nasce il pepe, si deve sapere che lo si trova soltanto in un impero a cui giunsi e che si chiama Minibar14, e non c’è nessun’altra parte del mondo in cui nasce, se non in quel paese. Il bosco in cui spunta la pianta del pepe si estende per diciotto giornate di cammino e al suo interno vi sono due città: il nome della prima è Flandrina e l’altra si chiama Cingilin."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo IX.
Probabilmente la regione di Malabar della costa sud occidentale dell'India. Descrive come viene raccolto il pepe.Qui cita la presenza di due città, Flandrina e Cingilin.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XXVI.=====
- « Minibar, che lo stesso vuole intendersi che Malabar, è una vasta penisola, e paese Indiano il più bello di qua dal Gange. Nella sua maggiore estensione comprende i regni di Canara, Cochin, Visapour e Calicut, i Stati di Sanzorino, e Travancor, ed il paese di Balagat, ed ha un numero copioso di città. Le sue campagne sempre verdi, nè mai soggette a brine, grandini e nevi, abbondano di riso, pepe e zenzero. Racconta il Beato esservi un bosco, per cui può aggirarsi ognuno per il tempo di diciotto diete, ed ove due città, Flandrina e Zinglin, fra loro nemiche, si trovano. Descrive la qualità, quantità e la maniera del pepe, che ivi nasce in copia grandissima. La religione de' Malabaresi si pretende che sia del vero Iddio; ma è tanto di superstizioni mista e di errori, che di gentilesimo ha piuttosto la faccia. I Malabaresi hanno linguaggio proprio; e 'n due classi dividonsi: Nairos, e sono i nobili, e Pareas, e sono i plebei, molto sprezzati dai primi. Costumano i braccialetti d'oro, d'argento e d'altro metallo, e all'estremità hanno l'orecchie forate. Sulla costa del Malabar v'è il piccol regno e città di Calicut, paese ingombrato da boschi, paludi e fiumi. Giosafat Barbaro le dà le prerogative ascritte dal nostro Beato a Palombo. » (VENNI, note.) È certamente la costa del Malabar, di cui parla Odorico, dandole il nome di Nimbar, o Minibar; il quale nome, dice il Yule, a quanto pare, ritiene l'antica forma arabica. Il Marignolli la chiama Nymbar; Edrisi ed Abulfeda, Manibar; Ibn-Batuta, Mulebàr; Frate Mauro, Milibar; e in un'opera turca tradotta da Von Hammer e stampata nel « Journal of the Asiatic Society of Bengal, V », è indicata sotto la denominazione di Monebar. (YULE, loc. cit.) Marco Polo ha in tutti i suoi manoscritti, Melibar. Il dire che in questa regione principalmente nasce il pepe, leva ogni dubbio intorno alla interpretazione che se ne deve fare. Perchè, sebbene non sia del tutto esatto che il pepe non faccia in alcun'altra contrada da questa in fuori; errore che può essere avvenuto da un equivoco preso da Frate Guglielmo, o da false informazioni dai naturali date al Beato; vero è però che il Malabar fu sempre tenuto in conto di paese in cui il pepe specialmente abbonda. Gli Arabi, infatti, gli diedero nome « Beled-el-Folfol » (paese del pepe). Il Gildemeister - 308 - scrive: « Malibar, ampla Indiae regio, urbibus frequens, in qua piper crescit. » (Scriptorum Arabum de rebus Indicis V.) Antonio Colin ha: « II vient une grande quantité de poivre au pays de Malavar, par toute ceste contrée maritime, la quelle va depuis le promontoire de Comorin, jusques au pays de Cananor. » (Histoire des drogues, épiceries.) Più difficile è indovinare donde le sia venuto tal nome. « La etimologia di Malabar (scrive il Lazari) non è ancora determinata. Mala è voce sanscrita, che suona « monte »; bara significa « sostegno »; var « acqua »; vara « porta. » I viaggiatori arabi del nono secolo ed Abulfeda pretendono che la controversa terminazione bar ne' nomi Malabar e Zanguebar, sia indiana e significhi « costa. » Il nome di Malabar è impropriamente applicato dagli Arabi e dagli Europei all'intera costa occidentale della penisola indostanica, non abbracciando che il littorale che dal Capo Comorino si estende al fiume Ciandragiri. Nei libri sacri dell'India il suo nome è Cherala, applicato esso pure talora all'intiera costa occidentale: Abulfeda diede al nome di Malabar questo senso estensivo; Linschoten ne fissò a Goa il limite settentrionale. » (LAZARI, Viag. di Marco Polo, ec.) « Quanto all'aver chiamato bosco (dice qui il De Gubernatis) il Malabar, questo avvenne certamente per un equivoco del linguaggio; la voce Malay-a (onde Malayabara, Malayavara), oltre alla provincia dei monti Malaya, significando pure in sanscritto, boschetto, giardino. » (Storia dei Viagg. ital., cap. Il.) Del resto, il Malabar ci vien descritto come fertilissima terra, con bei campi messi a coltura, colline intere piantate a pepe e cardamomo, pianure coperte di riso, o ombreggiate di rigogliosi palmeti, e le montagne coronate di fitte foreste che danno il sandalo. Che qui non si tratti di foreste di pepe, si può argomentare dal testo medesimo di Odorico, che, descrivendone la pianta, la mostra come inadatta a stare da sè. Pure anche ai nostri dì, come riferisce il Yule, un luogo del Malabar era chiamato « bosco di pepe. » Flandrina è la Fandaraina di Ibn-Batuta, la Pandarani del Ramusio, la Fandaraina di Edrisi (scritta anche, per errore, Kandaraina), e forse risponde eziandio alla Bandinànah (per Bandirànah) di Abdarrazzak. Si trova a circa venti miglia verso settentrione da Calicut; ma nelle carte geografiche non viene più indicata. Angti, o meglio Cyngilin, o Cinglin di altri codici, deve di certo rispondere al Singuyli di Frate Giordano che lo nomina insieme a Molebar (Calicut) e a Quilon; e al Jangli (forse Chinkali) di Rashiduddin; e al Cynkali del Marignolli; e fors'anco al Gingala di Beniamino di Tudela. E poi senza dubbio - 309 - il Shinkala o Shinkali di Abulfeda, il quale l'accoppia con Shaliyat, dicendole città del Malabar, di cui l'una era abitata da Giudei. Shaliyat, così appellata anche da Ibn-Batuta, è dagli Europei detta Chalia, o Chale, porto di mare vicino a Calicut e situato un poco più basso di questo: non molto lungi è Cranganor. La qual vicinanza ci fa sospettare che Cranganor sia il Shinkali che Abulfeda ricorda, unendolo con Shaliyat. Al che s'aggiunge l'autorità del dotto Maronita Assemani che scrive: « Scigla (Shigla, o Shikala, Shinkala d'Abulfeda) alias et Chrongalor vocatur ca, quam Chranganoriam dicimus Malabariae urbem, ut testatur idem Jacobus, Indiarum episcopus, ad calcem Testamenti Novi ab ipso exarati... anno Christi 1510. » Pare, dunque, che Shinkala sia di certo Cranganor, città sacra nelle memorie dei Giudei, dei Cristiani e dei Maomettani: i Giudei, perchè credono di esservisi stabiliti molto prima dell'era volgare; i Cristiani, come luogo a cui primamente approdò San Tommaso; i Maomettani, perchè dicono lì aver potuto innalzare la prima moschea che fosse fabbricata in quelle regioni. Frate Giovanni de' Marignolli nota, che Cynkali significa Parva India; ed infatti anche Abdurrazzak scrive, che un popolo vicino di Calicut veniva chiamato Chini Bachagan (figli di Cinesi); e benchè non vi sia in persiano la parola kali in senso di piccolo, pure abbiamo l'arabo kalìl, che ha questo significato. Intorno al qual proposito troviamo che gli Annali Cinesi rammentano Sengkili, paese dell'Occidente, che inviava donativi a Kublai. Cranganor par che fosse in antico capitale del Malabar e avesse il nome di Muyiri-Kodu. Ora è di molto decaduta. (YULE, ibid. note al Viagg. d' Odorico ed a quello del Marignolli.) La lezione del nostro testo latino, che dice essere Cristiani in Flandrina, e Giudei (per errore è scritto Indi) in Cyngilin, o Cranganor, è di molto preferibile alle altre, secondo le quali parrebbe che Giudei e Cristiani abitassero promiscuamente Flandrina. Infatti, oltrechè, come fa avvertire il Colonnello Yule, queste lezioni si accordano male con quel che segue, della continua guerra tra le due città e delle vittorie che sempre riportano i Cristiani, sono altresì in opposizione con la tradizione degli Ebrei, che sostengono esserne stati padroni dal 490 in poi. (Dizion. Geogr. univ.) La qual tradizione è per contrario una bella conferma a quanto, secondo il nostro codice, asserisce Odorico. Dei Cristiani che sono nel Malabar già accennammo altrove. Intorno agli Ebrei avvertiamo qui, che nel Malabar si dividono in due classi distinte; i bianchi e i neri; i quali hanno separate sinagoghe. I bianchi spregiano di molto i neri, riputandoli a sè inferiori; ma sono ora ridotti a piccolo numero: trent'anni sono sommavano - 310 - appena a duecento, e si erano raccolti in Mattancheri, sobborgo di Cochin. Essi credono di essere emigrati in India poco dopo la prima distruzione di Gerusalemme. E dicesi vi sia una concessione lor fatta da un re del Malabar, che data dal 231 avanti Gesù Cristo; e Firihta ci attesta che i primi Maomettani venuti in India, ve li trovarono. Il Padre Paolino da San Bartolommeo a' suoi tempi li calcolava a un quindici o ventimila. Gli Ebrei neri sono in Mattancheri; ma il più gran numero vivono in villaggi dell'interno del paese, dove hanno molte sinagoghe. Pretendono di appartenere alla tribù di Manasse, che fu menata schiava: da Nabucodonosor, e che riuscirono a rifugiarsi nel Mabar. (YULE, loc. cit.) Il Malte-Brun nota, che in Cochin sono alcune tavole in rame contenenti alcuni privilegi accordati dal re del Malabar agli Ebrei, di Cranganor, e rimontano all'ottavo secolo Nel 1505 Cranganor fu presa dagli eserciti del Portogallo, a cui la tolsero il 1663 li Olandesi. Questi la vendettero al Radjad di Travancore, e nel 1790 il sultano Tippon avendo fatto prova di prenderla a forza, gli Inglesi tostamente l'assediarono e l'occuparono, a proprio vantaggio. Sui primi del decimosesto secolo, quando era sempre in potere dei Portoghesi, il Barbosa vi trovò misti Gentili, Mori, Giudei e Cristiani di San Tommaso; ed anche al presente è abitata da Mussulmani, Ebrei e Cristiani. Odorico aggiunge, che in capo al bosco del pepe era Polumbo, o Quilon, poc'anzi índicata, come scalo alle navi Cinesi. Anche Ibn-Batuta, che vi dimorò lungamente nell'anno 1342, cioè poco dopo Odorico, scrive che Quilon, da esso chiamata Kaoulam, è l'ultima città meridionale della costa del Malabar, e che trovò nel suo porto molte giunche della Cina. « Aboulféda.. dit (scrive Silvestro de Sacy), que la ville de Caulamt est la derniére du Manibar. » (Rélation de l'Egypte.) Lo zenzero nasce in molti luoghi dell'India, e dal Pegolotti è chiamato Colombino e Micchino: questi due nomi gli sono venuti da quelli delle contrade ove nasce, che in questo caso sono Colombo, d'India, o Coulam, e il territorio della Mecca. Sembra dunque che un tempo lo zenzero di Coulam fosse in molto credito, poichè da questa città pigliava anche la denominazione. Il medesimo autore dà questo stesso titolo di Colomni, o Colombino ad una specie di verzino, e al cinnamomo; il che spiega la menzione che si fa di quosto prezioso frutto nel codice Palatino, dove si parla di Coulam. (YULE, loc. cit.) Quanto al pepe, ecco come lo descrive il contemporaneo Frate - 311 - Giordano: « Piper est fructus herbae, qua'e est ad modum hederae, quae ascendit super arbores et facit semen ad modum lambruscae, quasi uvam; quod est primo viride; deinde cum pervenit ad maturitatem, efficitur toturn nigrum et rugatum, prout potestis videre. » Quasi le stesse parole ha Frate Giovanni de' Marignolli. Come Odorico possa averlo veduto cogliere ancor verde, e così verde dirlo maturo, e che cosa sia il composto che se ne fa, di cui parla il testo Palatino, viene molto bene dichiarato dal Padre Vincenzio Maria, che ne scrive così: « La pianta è vitilagine; nel tronco e nella grandezza similissima alla vite; divisa con proporzionata distanza da certi nodi vicino a' quali si feconda di tralci che altra pianta sempre richiedono per loro sostegno; sopra le quali caricandosi di rami e foglie, tutto l'anno si feconda di frutti, succedendo li acerbi alla proportione che maturano li primi. Il tronco e li rami che sempre torti serpeggiano, sono del medesimo sapore et acutezza del frutto, alquanto più temperato. Questo nasce come in grappi, distribuito in quattr'ordini sopra verghette minute. Prima di maturare, verdeggia; giunto alla perfettione, s'oscura. Alcuni lo vogliono verde; nel quale stato la sua mordacità è più temperata... Corre comune opinione nell'India, che sia di temperamento frigido, e perciò rinfreschi; onde li naturali, dove tengono per grandemente dannoso il concedere un ovo, o brodo di carne agli infermi, acciò non si fomenti, in clima tanto focoso, il calore nocivo, non hanno difficultà di darli il pepe misturato nella cangia, che è l'acqua colata dal riso mal cotto, sostento ordinario de'decombenti, » (Viag. all'Ind. orient., lib. IV, cap. III) Anche il Conti parla spaventato dei terribili serpi dell'India, e specialmente del Malabar. E il Papi nelle sue Lettere dice: « A proposito di serpenti, sono essi in gran numero nell'India. Il dottor Russel inglese ha pubblicato un libro... sopra quarantatre o quarantaquattro sorti di serpenti raccolti da lui su la costa del Coromandel. » E tra i serpenti del Malabar nomina e descrive il Nalla-Pamba, detto dai Portoghesi Ombra de capello, il Cancutti pamba, il Mannùni, il Perimpamba. Sopra i coccodrilli trovo nel Malte-Brun la nota seguente: « Près que tous les fleuves, et mème les lacs et les marais de l'Hindoustan et du Dékhan nourissent des crocodiles plus gros, que ceux d'Égypte. » Così anche rispetto ai pavoni, il Papi visitando il Malabar, s' « arrestava... attonito a riguardare tanti e sì maestosi tronchi eternamente verdeggianti, alcuni dei quali sembravano nati col mondo, popolati di varie specie di scimmie e di altri quadrupedi saltellanti fra i loro ampi rami, e gremiti talora di pavoni delle più belle piume, di pappagalli e di una infinità di altri uccelli. » (Lettere, ec.) - 312 - Nel codice della Palatina si dice che i popoli del Malabar vanno ignudi. Intorno alla qual costumanza sono nel Viaggio del Padre Vincenzio Maria le dichiarazioni seguenti: « Li Gentili che nelle città del Nord trattano con Europei per ragione delle loro mercantie, portano veste talare di tele candide, che dal collo fino a terra con molta grazia li cuopre. Li altri (nella qual forma camminano tutti quelli del Sud) sono nudi, eccettuato quanto un vil panno, o ligatura più o meno grande, secondo le qualità delle persone, li nasconde le parti vergognose... Li Malavari portano il panno steso fino al ginocchio, alcuni crespato, altri di seta colorita, massimamente li principi. Li Malavari vanno del tutto scalzi... Uguale... le donne.. Le Malavare sono del tutto nude, se non in quanto un miserabil panno dall'umbilico le cuopre fino a metà della coscia, non sempre steso, ma bene spesso piegato; nel che anco si regolano secondo li gradi della loro sorte o nobiltà, in modo che se li mariti o parenti usano giunchi o foglie per coprirsi, ancora esse non possono valersi d'altra materia. » (Lib. III, cap. VIII.) E noto che nel Malabar il bue viene adorato qual Dio. Anche Marco Polo ne avea parlato, ma senza entrare in molti particolari. Le abluzioni coll'orina e l'uso dello sterco di vacca sono accennate anche nel Codice di Manu, Yag'n'avalkya, Àcvalàyana. Il Padre Vincenzio Maria ne parla così: « Non minore è la sciocchezza de' Brahamani nella venerazione delle vacche o bestie bovine... A loro credere, non v'è cosa in terra animata tanto degna d'ossequio quanto questi animali. Dicono che nelli corni dimorano per loro delitia li figli di Parmissera; nelli occhi la Luna et il Sole; nell'orecchie le due consorti di Brahama; nella lingua il medesimo Parmissera; nelle narici Visnù; nelli denti altri Dei; nel pelo Ruxis; che nelli piedi sieno figurate le quattro leggi; che il latte è ambrosia; l'urina, che cancella li peccati; perciò la mattina quando escono di casa, se la vacca gli è il primo incontro, quel giorno l'argomentano felicissimo, et in ogni tempo passandoli vicini, li pongono la mano sopra del capo, come a cosa sacra, e poi la baciano. Quando questa vacca urina, percuotendosi con le mani le labbra, col suono della voce interrotto e gridi d'allegrezza le applaudono; non pochi nella medesima occasione corrono a lavarsi le mani e spruzzarsi la faccia come se piovesse acqua la più sacra, pretiosa e odorifera del cielo. Si stimano felici quando si possano cospergere con cenere di sterco di vacca abbrugiato; moltissimi la portano tutt'il giorno in fronte; altri su 'l petto nudo, e su la punta delle spalle stemperata con acqua, non solo per memoria della morte, come dicono, ma ancora per venera- - 313 - tione di questo animale... Li pavimenti delle case e de' tempii sono tutti lastricati di sterco bovino, stemperato con acqua... Alli medesimi tempii offeriscono li capi vivi e più belli, quali non servono ad altro che per ossequio vano degli idoli, scorrendo le campagne dove vogliono, pascendosi dove più li piace. » (Viag. all'Ind. orient., lib. III, cap. XXII.) In India, ci fa sapere il Yule che questi tori, offerti a Siva e lasciati liberi; si chiamano tori braminici. Non è adunque esagerato ciò che racconta Odorico.
Sitografia
Wikipedia -
https://it.wikipedia.org/wiki/Malabar
Polumbum
Nome attuale: Quilon / Kollam
Nome:Polumbum
Relatio: Cap. X
"A capite huius nemoris versus meridiem est quedam civitas nomine Polumbum, in qua nascitur melius zinziber quod nascitur in mundo; tot et tanta mercimonia sunt in hac civitate quod quasi incredibile videtur."
"All’inizio di questo bosco, dalla parte che volge a mezzogiorno, c’è una città di nome Polumbo, in cui nasce il migliore zinziber (zenzero) che ci sia al mondo. In questa città ci sono così tante e così abbondanti mercanzie che sembra una cosa quasi impossibile."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo X.
Nel racconto Odorico cita una località indiana con il nome di Polumbo, oggi chiamata Quilon (Kollam) situata sulla costa indiana del Kerala.
Quilon, vicino alla punta meridionale dell'India; "in cui è cresciuto il migliore zenzero di tutto il mondo."
Dio Bue
"Tutti gli abitanti di questo paese adorano come Dio un bue, che considerano un animale sacro: lo fanno lavorare per sei anni e poi nel settimo viene posto in comune. Mantengono e osservano sempre il seguente rito: ogni giorno al mattino prendono due bacili di oro o di argento e dopo aver fatto uscire il bue dalla stalla, li pongono sotto di lui. In uno di essi raccolgono l’urina, nell’altro invece lo sterco. Con l’urina si lavano la faccia; con lo sterco invece dapprima ne pongono un po’ in mezzo al volto, poi su entrambe le sommità delle guance e infine in mezzo al petto, così distribuendolo in quattro parti del corpo. Dopo aver fatto tutto questo, dicono di essere santificati, e così fa il popolo, e anche fanno così il re e la regina."
Idolo metà uomo, metà bue
"Gli abitanti di questo paese adorano anche un altro idolo, che per metà ha figura umana, e nell’altra metà ha l’aspetto di un bue. Questo idolo risponde con la sua bocca e molte volte domanda il sangue di quaranta vergini. Gli uomini e le donne danno in voto a questo idolo i propri figli e figlie, come da noi la gente dà in voto i propri figli o figlie a qualche ordine religioso. Così gli uomini uccidono davanti a questo idolo i propri figli o figlie, immolando il loro sangue, tanto che molti muoiono in questo modo. Ci sono molte altre cose che fa questo popolo, ma sarebbe un abominio scriverle e ascoltarle. In questa isola accadono molte altre cose che non vale la pena di descrivere."
Alla morte del marito si brucia insieme la moglie.
"Gli idolatri di questo regno hanno anche un’altra pessima consuetudine. Infatti, quando muore un uomo, ne bruciano il corpo e se ha una moglie, anch’essa viene bruciata viva, poiché dicono che così sarà insieme con lui anche nell’altro mondo. Ma se la moglie ha figli da questo marito, li può tenere e stare con loro, se vuole, la qual cosa non viene considerata vergognosa. Se invece è la moglie che muore per prima, la legge non impone all’uomo di morire sul rogo: egli può sposare un’altra donna, se così vuole."
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XXV.=====
- « Polombo dal sopracitato Giordano nella sua relazione del martirio de' quattro Francescani, posta di sopra, vien detto « Columbum »; e Colombo è detto altresì nelle lettere di Papa Giovanni XXII, colle quali l'eresse in vescovado l'anno 1330 in persona di Frate Giordano Catalani Domenicano, compagno dei quattro beati Martiri, come si può vedere nel tomo Il del Bollario del loro Ordine. Egli è noto, essere il colombo (volatile) ed il palombo (parimente volatile) della stessa specie; se non che il colombo è dimestico e il palombo è selvaggio: e forse nel leggere Columbum, i vari copisti hanno tradotto Palumbum. » (RIGHINI, note.) Pare questa la più verisimile spiegazione del perchè quasi tutti i codici di Odorico abbiano « Polumbum » invece di Columbum. Questo Palombo è di certo il Colombo di Frate Giordano Catalani (non l'autore della Cronaca), e del nostro Marignolli; e risponde alla moderna « Coulam », o Quilon. Il Wilson ci dice, che questa città fosse edificata nel nono secolo; ma forse fu una riedificazione, confusa con la fondazione, come spesso avviene negli annali orientali. Così troviamo as- - 303 - segnato l'anno 1341 per la fondazione del regno di Cochin, quando invece fu ristorato soltanto. E che Coulam sia più antica, ce ne fa sospettare una lettera d'un Jesujabus d'Adiabene, morto nel 66o, indirizzata a Simon vescovo metropolitano della Persia, nella quale si lamenta l'indolenza dei prelati, che non solamente lasciarono priva di ministri di Dio tutta l'India frapposta tra la Persia e Colon, ma anche la Persia, che n'era in angustie. Il Colon menzionato in questa lettera, riferita dall'Assemani, potrebbe ben essere il Coulam. Il Professore Kunstmann, tratto forse in errore da un passo di Marco Polo, pensa che Colombo sia il Cael di questo viaggiatore; ma, tranne la Carta catalana, che pare favorire questa opinione, non se ne trovano altre ragioni. Essa pertanto non può sostenersi; perchè il Colombo di Frate Giordano è Coulam. (YULE, loc. Cit.) Il Polo, infatti, distingue Cael da Coilon, di cui parla in separati capitoli. Vuolsi avvertire, che una città di Colombo è anche nell'isola di Ceilan; ma diversa da questa: di fatti, mentre Frate Giordano dice di essere stato a Colombo, di Ceilan parla corríe di luogo che solo per notizia conobbe; oltre ricordare i Nascarini, o Nestoriani di Colombo, i quali erano sulla costa del Malabar, e non in quell'isola. Ancora parla del pepe, prodotto del Malabar, come di cosa a lui ben nota; mentre della cannella, che nasce in Ceilan, appena fa cenno. Finalmente ricorda la singolare legge, per la quale i beni di uno, invece di passare in eredità ai figliuoli di lui, vanno a quelli della sorella. (Récueil de Voyages, etc., vol. IV.) Il Marignolli poi con chiarissima indicazione ci dice, che Colombo è nel Mynibar (Malabar), e così tronca di netto la questione; ed inoltre col distinguerlo che fa dal Maabar, dove riposa il corpo di San Tommaso, mostra che non è il Cael di Marco Polo. (YULE, loc. cit.) Colombo è spesso detta isola: ma non può essere Ceilan. Il Pegolotti, difatti, ricorda il zenzero di Colombo, isola d'India: Andrea Bianchi nel suo Mappamondo segna l'ixola di Colomnbi, di contro all'estremità S. O. dell'India: Frate Mauro pone all'E. nell'India l'isola Colombo, celebrata per il pepe, il gran commercio e i leoni neri (tigri). (YULE, loc. cit.) Coulam si trova scritto da autori antichi in differenti modi. Marco Polo nei varii testi ha: « Coylum, Coilum, Coulam »: i Portoghesi sogliono scrivere « Kaulem », o, aggiungendo l'articolo « el Caulem »; gli Olandesi, « Coelang, o Coylan »; gli Inglesi, « Quilon ». Alcuni pensano che sia l' « Oulam » di Beniamino di Tudela; e il Barthema la chiama a Colon », avvertendo che sta sul mare ed « ha un bel porto. » Questa città, dice il Barros, fu di grandissimo commercio, e re- - 304 - sidenza di molti re del Malabar. Quando il famoso Sarama Pereimal, vinto dalle persuasioni di alcuni Arabi, ebbe abbracciata la religione di Maometto, e per impeto di devozione al pseudoprofeta si fu determinato di finire i suoi giorni alla Mecca, egli divise il reame fra tre suoi figliuoli; assegnando all'uno Calicut; Cananor al secondo; Coulam al terzo, che ebbe anche l'ufficio di Gran Bramino e Cobrisin, cioè Supremo Pontefice. Albuquerque la conquistò nel 1504. (BARROS, Decad. I, cap, 9.) Nel 1661 gli Olandesi la tolsero al Portogallo, soggettandola ai propri dominii; poi venne in potere degli Inglesi. Ora è città decaduta di molto, e in suo luogo sorse a prospero stato la vicina Argengo. Abulfeda dice: « Caulam est, ut ait Saidi filius, in extremis terris in Orientem, unde navi eatur Adanan. » (ABULFEDA, Geogr.) È a sessanta miglia da Cochin. Coulam nella lingua del paese vuol dire « laguna, stagno »: forse la città ebbe tal nome dalle molte lagune che si stendono ad essa intorno e continuano fino a Cochin ed a Cranganor. L'India superiore nominata da Odorico, è la Cina. Niccolò Conti ha: « L'India tutta è divisa in tre parti; la prima si distende dalla Persia sino al fiume Indo; la seconda, da questo fiume sino al Gange; la terza è quella che è oltre al detto fiume, e questa è la migliore. » (Narratione della vita et costumi, cc.) Questa stessa divisione è adottata da Frate Mauro nel suo planisfero; ed in quello di Andrea Bianchi si trovano le denominazioni stesse di Odorico: « India minor, India media, India superior. » L'India superiore, dice il D'Avezac, secondo tali divisioni comprendeva tutte le terre al di là dall'Indo sino alla Cina Meridionale. In un Codice manoscritto del viaggio d'Odorico, che è quello della Marciana, segnato di numero 32, classe XI, sono aggiunte alcune particolarità, che, come ivi si dice, vennero « udite dire uno die et una sera.., a Sancto Franciesco de la Vignia, ch'è luogo de' Frati Minori di Vinegia, stando a cena allato a lui, mangiando con lui a uno taglieri, con molti altri Religiosi et secolari in quelli dì che elli tornò di detti paesi. » Le quali particolarità « non sono scritte (nel libro di Odorico) per brevità, o per onestità, o per dimenticanza o per altra cagione. » Intorno alla nave, sulla quale Odorico partì di Quilon, è detto quanto segue: « Sopra quello che è scritto della nave, che avea settecento uomeni, ne la quale andò ne l'India superiore, aggiunse et disse che la ditta nave avea diciotto vele, de le quali le quattro, overo le cinque, erano principali et maggiori che l'altre; et aveavi su cinquecento cambere, et andovvi su sei mesi continui; e in su questa nave - 305 - cercoe, andando per mare, grande parte di quelli paesi; et disse che quello mare non è tempestoso come il nostro di quae, nè fortunevole; anzi tranquillo et bonaccevole. » La qual descrizione combina assai con quella che ce ne ha lasciato Marco Polo. Ricorda questi le camere, d'ordinario in numero di sessanta, poste sopra coperta, in cui può dimorare agiatamente un mercatante, e l'equipaggio numeroso dì cui abbisognano per essere governate. Anche Niccolò Conti dice delle navi d'India, « di portata di duemila botti più grandi delle nostre; e hanno quattro vele, e altrettanti arbori... Sono queste navi partite in tante camere piccole, e con tal'arte fabbricate, che s'avvien che una parte di esse si rompa, l'altra resta sana, e possono continuare il viaggio. » Il De Guignes fa menzione degli scompartimenti o camere, e le descrive così: « La cale des sommes est divisée en plusieurs compartimens faits de planches de deux pouces d'épaisseur, et calfatées soigneusement, ainsi que le dehors, avec de la galegale, espèce da mastic composé de chaux et d'huile appelée tong yeou, et mélé avec des fils déliés de bambou. La galegale se durcit dans l'eau et devient impénétrable. Un seul puits placé au pied du grand màt suffit pour tenir la jonque à sec; on le vide avec des sceaux. C'est un grand avantage pour ces bàtimens que d'avoir leur cale divisée en compartimens,... car si un navire touche sur un rocher et est enfoncé, l'eau ne pénètre que dans un endroit et ne se repana pas par-tout. » (Voy. II). Della tranquillità di quel mare già aveva un poco in confuso accennato il Beato al capo XIX, quando parlando del naufragio della nave che dovea trasportare i quattro Minori a Quilon, osserva, « quod alias (cioè del naufragio) de illo mari numquam est auditum. » E tal fatto è confermato eziandio da Frate Vincenzio Maria da Santa Caterina, che scrive: « Il Mare Mediterraneo ed Oceano Occidentale sono sempre irregolari nelle loro agitationi; da un giorno all'altro, dalla mattina alla sera, non hanno stabilità di venti. Quello d'India è sempre regolato, provandoli vari secondo la diversità delle stagioni. D'inverno è sempre tempestoso per la vehemenza del sirocco, anzi impraticabile. D'estate sempre pacifico, sì che qualsivoglia ine, sperto nocchiero lo puole navigare sicuro... L'onda per l'ampiezza e profondità del mare, è sempre stesa, nè mai interrotta; perciò le navi grosse camminano con maggior sicurezza. La sola inespertezza nel caricare li vascelli, o la fiacchezza del legno, suole d'ordinario portare al naufragio. » (Viaggio all'Ind. orient., lib. III, cap. V.) Sandon è il porto di Zaiton nella Cina meridionale. Ne parleremo a suo luogo. Per ora facciamo osservare che, sebben le parole di Odorico siano alquanto ambigue, non vuol già dire che egli partendo - 306 - da Quilon sbarcasse direttamente a Zaiton in Cina; ma soltanto che egli in un tempo e giorno indeterminato venne a Zaiton, dove depose i sacri corpi dei Martiri. Ciò apparisce evidente dall'attenta lettura dei capitoli XLII e XLIII del Viaggio, dai quali risulta che egli sbarcò a Canton, e da questo luogo per via di terra si trasferì a Zaiton. Vero è che dal nostro testo latino sembra che quella sia la seconda volta che giunge a Zaiton, poichè ha le parole: « Veni ad Zaycon... ubi transtuleram prius ossa illorum quatuor Fratrum Minorum; » ma questa è certamente un'aggiunta di Frate Enrico di Glars nella sua ricompilazione; il quale fraintese il racconto, certo più autentico, di Frate Guglielmo da Solagna; errore in cui cadde anche il Venni. Tutti gli altri codici, infatti, si esprimono in modo diverso. Noi nella vita d'Odorico facemmo notare l'anno, in cui primamente pervenne a Zaiton, che fu il 1326, corroborando di forti ragioni la nostra congettura. Ciò posto, se, com'egli ci dice, dimorò tre anni in Pekino, e tornò in Europa nel 1329, è chiaro che non gli restò tempo da poter far ritorno nell' Indie, secondo che porterebbe tale interpretazione, e di là con immenso giro navigare la seconda volta a Zaiton. Il porto adunque, al quale, secondo che qui si dice, smontò, fu Canton, a cui sogliono primamente approdare le navi dirette alla Cina. Il Colonnello Yule nota in questo luogo, che è costume dei Cinesi di minutamente perquisire le navi che entrano nei loro porti, esamínandone le carte e i bagagli. Ed a questo costume si riferisce, senza dubbio, quello che racconta Odorico delle ricerche fatte in tutta la nave in cui egli si trovava. Anche Ibn-Batuta fa una minuta descrizione di quest'uso. Non trovo memorie che confermino l'aborrimento che i Cinesi avrebbero per le ossa de' morti; ma è molto naturale che non riguardassero di buon occhio chi le recasse seco, tenendolo per un fattucchiero. Laonde non era irragionevole il timore di Odorico. Quello che egli dice della terra bagnata dal sangue dei quattro Martiri della Tana, è raccontato dal Polo, parlando della terra ove morì San Tommaso. Ecco le sue parole: « Quivi ha la maraviglia che vi conterò. Sappiate che i cristiani che vanno a questo pellegrinaggio, prendono della terra del luogo dove il Santo (Apostolo Tommaso) morì, e ne portano nelle loro contrade, dove, dandone a trangugiare a malato aggravato di febbre terzana o quartana, incontanente guarisce: il colore di questa terra è rosso. »(Trad. del LAZARI.) Anche il Padre - 307 - Vincenzio Maria racconta, che i Nestoriani dell'Indie « l'acqua benedetta la formavano con solo gettarvi dentro alcuni grani d'incenso, ovvero un poco di terra raccolta, dove sapevano che San Tommaso tenne li piedi. » (Viag. all'Ind. orient., lib. II, cap. III) Il Yule poi aggiunge, che simile fatto è raccontato anche dal Padre Paolino di San Bartolommeo.
=====Illustrazioni al Capo XXVII.=====
- Tutti i viaggiatori dell'India parlano di sacrifici umani, i quali del resto, più o meno, si trovano in quasi tutte le false religioni del mondo, e accennano ad una primitiva colpa, che rese l'uomo nemico a Dio, e perciò bisognoso di riacquistarne l'amicizia. Tralascio le molte citazioni che si potrebbero fare a conferma di questa asserzione, perchè cosa troppo nota. A mostrare però come anche in India vigesse simil costume, riferirò il seguente racconto del Padre Vincenzio Maria, che spiega anche il modo onde l'idolo dà responsi: « Ad alcuni di questi pagodi principali (egli dice) dedicano li genitori le proprie figlie...; per mezzo di queste fanno parlare gli oracoli, poichè dalli simulacri stessi mai si ode risposta. II modo è il seguente. Forma il sacerdote un circolo, nel quale disegna certe figure mostruose, e vi colloca una di queste fanciulle, la quale con cantici e suoni magici si dà in potere del diavolo; il che succede con tanto loro pregiudizio, che, cominciando a tremare, divengono come frenetiche, prive di ragione, e ben spesso cadono come morte. All'hora richiede il perfido ministro ciò che li piace, ricevendo per verità infallibile e per voce infallibilmente articolata dal Nume, quanto esse rispondono... Per cancellare li peccati vi aggiungono il sangue di qualche animale, e quando sii humano, suppongono che riesca più grato. » (Viag. all'Ind. orient., lib. III, cap. XXIII e XXV.) Anche il Conti ci descrive questa orribile costumanza in Cambaja e in Bisnagar; e il Malte-Brun osserva che a' nostri giorni, benchè sia severamente proibito, « dans les épidémies et calamités publiques les Bramines se précipitent eux-mèmes dia haut d'une tour, comme offrande expiatoire. » (Précis, etc.) Le altre abominevoli usanze di cui Odorico ha voluto tacere per decenza, per la stessa ragione le lasciamo ancor noi. Il signor Elphinstone (scrive il Yule) ha voluto negare che la pratica di abbruciare le vedove sul rogo del morto marito, sia comune in India, e che fosse solo in uso al Sud del fiume Kishna: ma s'inganna. Il Polo la descrive come esistente nel Maabar: il veridico e giudizioso Gaspare Balbi nel 1580 dice di averne veduto il triste - 314 - spettacolo a Negapatan; e il Padre Vincenzio Maria nel secolo decimosettimo scriveva: « Fra i Brahamani è legge stabilita, che morendo il marito, la moglie si deve abbruciare col di lui cadavere. » Sui primi dello scorso secolo questo rito era usitatissimo nel Canarà. Il Padre Martini in una lettera da Marawar, data l'anno 1713, racconta tre casi recenti avvenuti colà; nei quali alla morte di tre principi furono sacrificate molte donne; e la vedova del Rajà di Trichinopoly essendo incinta, si aspettò che si sgravasse. Benchè proibito dalle leggi inglesi, non è raro che in onta alla legge vi sia chi lo pratica ancora. Anche. Properzio ne parla, come apparisce dai versi seguenti : Uxorum fusis stat pia turba comis: Et certamen habet laeti, quae viva sequatur Coniugium, pudor est non licuisse mori. Ardent victrices, et flammae pectora praebent Imponuntque suis ora perusta viris. Era dunque già in uso almeno 1900 anni fa. (YULE, loc. Cit.) A conferma poi di tal barbaro rito, e della restrizione che pone il nostro Odorico, reco due passi, l'uno del Padre Vincenzio Maria, l'altro del Della Valle. « La sera non trovando altr'alloggio (dice il primo) fummo accolti nella povera casa d'una Brahamane, la quale dopo la morte del marito per non avere voluto abbruggiarsi con il di lui cadavere, secondo lo stile della loro legge, viveva come sprezzata da ognuno, in perpetua servitù e schiavitudine del principe. » (Viag.. all'Ind. orient.) « Alli sedici di novembre (scrive il Della Valle) m'era stato detto che quella sera haveva da morir quella donna che voleva brugiarsi per la morte del marito... Avendo io havuta nuova di quella donna... era venuto a vederla... Hebbero gusto quelle genti della mia venuta, et ella stessa... si levò da sedere, donde stava, e venne in persona a parlarmi: onde ragionammo insieme tutti in piedi lunga pezza.. Mi disse... che era circa dicinove giorni che suo marito era morto, e che haveva lasciato due altre mogli di più età e prese innanzi a lei, delle quali nessuna voleva morire; et elle stesse che stavan presenti, adducevan per scusa, che havevan molti figli. Onde io valendomi di quell'argomento, dissi a Giaccama (nome della donna) che m' haveva mostrato un suo picciolo figliuolo di sette anni incirca che haveva, et un'altra figliuola; come si poteva indurre a lasciar i suoi figliuoli. piccioli?... Mi rispose che li lasciava ben raccomandati alla cura d'un suo zio... Mi disse anco, perchè io li dimandai, che ciò faceva di sua propria volontà. » (DELLA VALLE, Viaggi.) Dal che si vede che le donne con figli potevano senza infamia sottrarsi al rogo. - 314 - L'Anonimo che ha fatto alcune giunte al Codice sunnominato della Marciana, dà la seguente descrizione di tale rito, perfettamente conforme a quella di altri viaggiatori: « Et sopra quello che è scritto nel capitolo di Polumbo, ove quando muore lo marito, sì l'ardono con la moglie viva; (Odorico) disse che fanno per questo modo. Che la moglie quando si vae ad ardere, è vestita et adornata molto onorevolmente, tutta coperta di fiori, accompagnata da molta giente et con molti stormenti; ella vae cantando et ballando in mezzo di questa giente fino a una piazza. Et quine è fatta una grande catasta et monte di legnie; et ella vi monta sue, et siedevi su una sedia, et lo marito morto le è messo in grembo; et poi è messo fuoco in queste legnie et arde et muore la moglie viva col marito morto. » Nella lezione della Palatina è una giunta in cui si parla di alberi che danno miele, altri che danno vino, altri lana, altri frutta di grandezza smisurata; e di poi vi si dice di aver udito parlar di alberi che per frutto producono uomini e donne. Tutto questo può, tranne l'albero che dia uomini e donne, essere verissimo. Le palme dell'India danno davvero il miele, cioè un liquore zuccherino, ed un liquore inebriante e forte che può far le veci del vino; l'albero del cotone è forse quello che, secondo Odorico, produce la lana; e la giacca (frutto) risponde, se non erro, ai frutti di smisurata grandezza di cui parla il Beato. Nè è difficile che gli sia stata raccontata la nota favola arabica, della pianta che produceva degli uomini, della quale parlano il Masudi e l'Edrisi; favola allora comunissima e universalmente creduta; e creduta anche di poi in tempi a noi più vicini e da persone versate in istudi. L'autore del discorso intorno all'Itinerario del Beato Odorico, nota a questo capitolo: « Il codice di Monaco (che è il pubblicato da noi) ha: Mulieres etiam faciunt sibi radi barbam, viri numquam. Nel nostro testo (il testo di Guglielmo da Solagna) leggesi invece: Mulieres etiam faciunt sibi abradi frontem, et barbanm homines non, che ci dà un costrutto intelligibile. »
Sitografia
Wikipedia -
https://en.wikipedia.org/wiki/History_of_Kollam
Mobar
Nome attuale: Malabar, parte settentrionale della regione indiana del Kerala. (Madras / Mylapore)
Nome: Mobar
Relatio: Cap. X
"Ab hoc regno sunt decem diete usque ad unum aliud regnum nomine Mobar, quod est multum magnum regnum habens in se multas civitates et terras. In hoc etiam regno positum est corpus sancti Thome apostoli, cuius ecclesia plena est multis idolis; penes etiam quam ecclesiam sunt forte quindecim domus nestorinorum, idest christianorum qui sunt nequissimi et pessimi heretici."
"Da questo regno occorrono dieci giornate di cammino per giungere a un altro regno di nome Mobar, che è molto grande e ha nei suoi confini molte città e regioni. In questo regno si trova il sepolcro di san Tommaso apostolo e la chiesa a lui dedicata è piena di molti idoli. Accanto a questa chiesa ci sono circa quindici case di nestoriani, cioè di cristiani eretici, molto cattivi e pessimi.."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo X.
Qui il racconto di Odorico colloca la presunta tomba dell'apostolo Tommaso. Afferma la presenza di una comunità di cristiani nestoriani.
Idolo d'oro
"Similiter in hoc regno est unum idolum mirabile valde, quod omnes contrate Indie multum reverentur. Nam ipsum est tam magnum sicut sanctus Christophorus communiter depingitur a pictoribus; et est totum de auro puro, positum super unam magnam cathedram que etiam est de auro; et habet ad collum unam cordam de lapidibus pretiosis, que etiam corda pretium multum valet. Eius ecclesia tota est de auro puro; nam tec157tum est totum de auro similiter et pavimentum."
"Similmente in questo regno c’è un idolo davvero degno di ammirazione, che tutti gli abitanti dell’India riveriscono. Ha una grandezza enorme, simile a quella che i pittori da noi usano per rappresentare il nostro san Cristoforo, ed è tutto di oro puro, collocato sopra una grande cattedra, anch’essa tutta d’oro. Al collo porta una collana di pietre preziose, e anche questa collana è di grande valore. La sua chiesa è tutta di oro puro. Perfino il tetto e anche il pavimento sono tutti di oro puro."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XI.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XXVIII.=====
- « Col viaggio di dieci diete venne ad un altro gran regno, che nel manoscritto è chiamato Mobar, conosciuto in oggi sotto nome di Coromandel. Quando la città di Maliapour passò al dominio portoghese, le fu dato il nome di San Tommaso Apostolo, che fu l'apostolo dell'Indie, di cui al tempo del nostro Beato si diceva depositato il corpo in una chiesa ch'era piena d'Idoli, presso cui quindici case trovò d'eretici. San Tommaso martirizzato fu e sepolto in Calamina. Il Salmon racconta, che la città San Tommaso ha un vescovo Cattolico suffraganeo di Goa, e un vescovo ne- - 316 - storiano suffraganeo di Bagdad. Le chiese meridionali della costa del Coromandel sono ubbidienti al vescovo Cattolico, e le settentrionali al Nestoriano. Tolta dagli Olandesi ai Portoghesi la città, da forte e mercantile divenne povera, ed il suo traffico fu trasportato a Madras, o sia a Castel Sant'Angelo. In questo regno avendo fatto grandi acquisti gl' Inghilesi, Olandesi e Danesi, professori delle sette di Lutero e di Calvino, eglino tengono colà i loro predicanti, i quali studiano di spandere i loro errori, abbenchè i Missionari cattolici diligenze non risparmino e sudori per impedirne il gran danno. Trovò il Beato Odorico i popoli di questo regno immersi nell'idolatria. De' Cristiani di San Tommaso parla diffusamente il Padre Vincenzio Maria, Carmelitano Scalzo, ne'suoi Viaggi all'Indie Orientali. » (VENNI, note.) II Polo chiama questo paese Maabar. « El Maabar (scrive il Lazari) è voce araba, che suona tragitto, ed esprimeva presso gli Arabi quella costa che abbraccia i territori odierni di Tinevelli, Madura, Tangior, ed è congiunta alla vicina isola di Ceilan dagli scogli di corallo del ponte di Rama, o di Adamo... Il nome di Maabar è scomparso dalle geografie occidentali ed orientali dal tempo in cui questa regione fu compresa nel Carnatic; ma lo leggiamo negli scrittori arabi ed indostanici del medio evo. « Commemorat ol Canum (dice Abulfeda nella versione di Reiske), urbem Indícam, nomine Mandari, et ait esse urbem inter emporium et traiectum (al Mabar) ad insulam Sarandib. » Ed altrove: a Tertiam Indiae provinciam recensebat al Mabar (seu traiectum), cuius initium incidit in locum tribus aut quatuor diebus ab al Caulam in Orientem remotum. » Feristha racconta, come Alla I, re di Deli, spedì un'armata a soggiogare i territori di Dur, Summund e Maber nel Decan l'anno 710 dell'egira, e come la conquista ne fu terminata da Moammed III nel 725. »(LAZARI, Viag, di Mar. Polo.) Alcuni vogliono che il nome Maabar venga dal Marawar, nome di un regno indiano presso il ponte (o tragitto) d' Adamo, il cui re chiamavasi « Setu Pati », (signor del ponte): e tali corruzioni originate da false etimologie sono assai frequenti. Così della parola inglese receipt, gli Indiani, credendola derivazione dell'arabo Rasidan, hanno fatto Rasid, Marawar, o Marava, è forse il Marullo di Cosmas, che lo descrive come un luogo sul continente d'Asia presso Ceilan, con spiagge abbondanti di conchiglie. Non è noto se tale appellazione gli venisse dal persiano Marwàrid, da cui venne la nostra parola Margarita. (YULE, loc. cit.) Che San Tommaso pervenisse e predicasse in Meliapur, è oggimai fatto da non poterne più dubitare; essendo intorno a ciò concordi tutti gli antichi scrittori, di cui fa memoria il Padre Marcellino da - 317 - Civezza nel terzo volume della sua « Storia universale delle Missioni Francescane, al capo II, » dove tratta assai lungamente questa questione, dimostrando invincibilmente la reale andata di San Tommaso nelle Indie ed il suo martirio. Addotte a prova della verità del suo asserto numerose testimonianze antiche e moderne, e i monumenti e le iscrizioni trovate in Meliapur, giustamente conchiude: « Dopo le quali cose... nessuna sentenza è omai così comprovata, come quella che afferma San Tommaso aver predicato e aver ricevuto il martirio nell'Indie. » Dei Nestoriani che erano nel Malabar, già dicemmo altrove. Essi però, oltrechè nel Malabar, erano anche nel Coromandel, come ci attesta anche il Polo e con esso quasi tutti gli altri viaggiatori. E' vi sono infino ad oggi, e assai numerosi. Gl'Indíani sono idolatri; e il signor De Backer scrive, che una statua colossale in oro è tuttavia dentro l'antica chiesa di San Tommaso: forse rappresenta Budda. (L'Extrème Orient, etc.)
=====Illustrazioni al Capo XXIX.=====
- Questo capitolo di Odorico è interessantissimo. In esso descrive con molta verità ed esattezza i riti religiosi dell'India, e primo di tutti ci dà notizia dell'idolo e della festa del Tirunnal. Chi sa che le pagode e gl' idoli indiani ci vengono sovente descritti da' viaggiatori come monumenti di poca entità, potrebbe sospettare che qui il nostro Missionario esagerasse e colorisse a fantasia, parlando di tante ricchezze. Ma non è così. Il Yule ci fa sapere che da quel che si vede in Burma, dove i riti Buddistici, per la libertà lasciata a coteste sette, si conservarono più puri, si può congetturare che l'uso delle dorature in foglia negli edificii sacri fosse molto esteso. Basta vedere il santuario di Sikh, che tuttavia resta in Amritsar. Del resto, è probabile che quello che Odorico chiama d'oro, fosse solamente coperto di foglia d'oro. (YULE, loc. cit.) Firishta racconta che nella invasione dell'Indie fatta dai Maomettani il 1294, Alaudden, re di Dilli, tolse grande quantità d'oro e di gemme dal tempio, o pagoda, di Dwara Samudra e Ma'abar. Anche il Conti afferma, che « gl'idoli sono fatti o d'oro, o d'argento, o di pietra, o d'avorio, delli quali alcuni sono sessanta piedi d'altezza. » (NARRAZ, della vita e de' cost. degli uomini della India, ec.) E il Padre Vincenzio Maria ci fa sapere, che « tutti questi tempii abbondano di ricchezze... Quello di Treuiliar... tiene trecento conche d'oro molto grandi, ricche di pietre preziose, per l'uso ordinario... Nel regno di Canaron ne trovai uno coperto d'oro, con lamine lunghe un cubito, larghe un palmo... In Macharcurt, fra i monti del Mogor, dove vene- - 318 - rano un idolo molto stimato, mi dissero che non solo il tetto, ma anco il pavimento era d'oro massiccio. » (Viag. all'Ind. orient., lib. III, cap. XXIII.) Le penitenze che s'imponevano coloro che recavansi in pellegrinaggio agli idoli più celebrati, sono confermate dai presenti studi sopra quei paesi. Tra le altre, vien narrato un modo di camminare per prostrazioni, che, tolta la cerimonia dell'incensare, è simile a quello riferito da Odorico. Un uomo ebbe la costanza di percorrere ìn tal modo, a un miglio per giorno, l'immensa distanza di 450 miglia. La parola invenia del testo, significa prostrazione, adorazione. (YULE, loc. cit.) Che le pagode siano d'ordinario presso gli stagni, è cosa riferita anche dal Padre Vincenzio Maria, il quale aggiunge, che « volendo fabricare (pagode), ... cavano e formano come una tromba, o pozzo ristretto, che giunge sino all'acqua, sopra la quale formano il piedistallo per l'idolo. » Ma non dice a che servano tali laghi. Il Colonnello Yule nelle sue addizioni alle note sopra Odorico osserva, che pochi anni dopo il passaggio del nostro Viaggiatore, Mahomed Tughlak, conquistando le città meridionali dell'India, trovò un lago nel cui mezzo era una pagoda, e nel lago gittavansi le offerte. Il guerriero tolse i tesori dal lago, e potè con questi provvedersi di duecento elefanti e altro numeroso bestiame. (YULE, ec.) Odorico primo di tutti, come s'è detto, descrive la festa del Tirunnal: il suo racconto dà molti particolari, che non hanno nè Frate Giordano nè il Conti che pur ne parlano. Il Padre Marcellino da Civezza, citando il Dubois, descrive così il terribile spettacolo: « In quella che migliaia di devoti trascinano il gran convoglio del Dio fra i cantici e le oscene danze delle baiadere, d'ogni lato padri e madri coi fanciulli in braccio si lanciano innanzi da quello... L'idolo di Giagrenat, formato di legno, con magnifiche vestimenta, le braccia dorate, il viso tinto di nero, la bocca aperta e di color sanguigno, siede sur un carro, con sopravi una torre alta sessanta piedi. Al primo apparire, la moltitudine lo saluta per alcun tempo con grida spaventevoli e fischi. Dipoi attaccate al carro enormi corde, alle quali si afferrano uomini, donne e fanciulli, a fine di partecipare a quella divozione, tu vedi la torre avanzare lentamente in grande frastuono. Cigolando dal peso, le ruote si profondano nel terreno; mentre i sacerdoti recitano inni, e drappelli di pellegrini agitano in aria verdeggianti rami. Ma poco stante la scena diviene paurosa; chè legge di loro religione vuole vittime di sangue. Allora quegli sciagurati portati dal loro fanatismo, si gittano sotto le ruote, sicchè a mala pena alcuni - 319 - contenti a farsi fracassare braccia e gambe, i più vi lasciano la vita. Dei meno zelanti, molti si appagano solamente di espiare con torture i loro peccati, questi rovinando sopra mucchi di paglia con dentrovi acute lancie e coltelli, altri lasciandosi attaccare alle due estremità di una leva con uncini di ferro, che si configgono nella scapula, onde levati a trenta piedi d'altezza, ricevono un rapidissimo movimento di rotazione, durante il quale si dilettano a spargere fiori sopra gli astanti. I quali non si rimangono neppur essi freddi e da meno; anzi dan di piglio a cento e mille piccole espiazioni, ficcandosi scheggie di canne nelle braccia e nelle spalle, e facendosi sul petto, sul dorso e sulla fronte centoventi ferite (numero di rito); l'un traforandosi la lingua con acuta punta di ferro, l'altro recidendolasi con una sciabola. » (Storia univ. delle Miss. Franc., lib. III, cap. II). E notevole che nel codice Palatino si trova dato ai sacerdoti indiani il nome di Tuin; il che fece anche in nostro Roubruck, ed è il titolo col quale i Mongoli indicavano i sacerdoti buddisti. (YULE, loc, cit.) Osserva a questo luogo il Yule, che dal descrivere che fa Odorico la festa di Giagrenat, non è da conchiudere che andasse colà; essendo noto che tali riti si celebravano anche altrove. (YULE, loc. cit.) Il Conti infatti racconta di averli veduti in Bisnagar. Anche ciò che segue nel testo intorno a coloro che s'offerivano spontaneamente a morire per i loro Dei, è confermato da quasi tutti i viaggiatori delle Indie: ne trattano il Polo, il Conti, il Padre Vincenzio Maria, il Sebastiani e tanti altri. « La pratica del suicidio religioso (scrive il Lazari) è comune e notissima... Ward allega... che il suicidio religioso è più frequente fra quegli infelici, ai quali la vita è un peso; fra quelli, cioè, che soffrono lunghe e incurabili malattie, che le sventure colpiscono, o che sono l'oggetto dell'altrui disprezzo. Egli, calcola a cinquecento il numero delle persone che ogni anno così periscono a Bengala. » (Laznur, Viag. di Mar. Polo, ec.) Era uso nell'India, come presso molti popoli pagani, di bruciare i cadaveri. « Nell'India di mezzo (dice il Conti) si bruciano i corpi morti »; e il Barthema: « Morti che sono li Naeri, gli fanno abbruciare in un luogo cavato, con grandissima solennità, e alcuni salvano quella cenere. » II Conti suddetto aggiunge anche che questi martiri del fanatismo « sono riputati per santi. » Alla fine di questo Capitolo, Odorico, non si sa come, chiama isola questa parte continentale dell'Asia. Osserva il Yule essere il primo errore che s'incontra nella narrazione di lui. Il Mandeville chiama isole tutte quasi le terre orientali, e molte carte antiche fanno isola anche - 320 - Quilon. Che il nostro Viaggiatore equivocasse cori la parola Jazirala, che significa isola? o piuttosto, che questa parola venisse talvolta usata a significare terra bagnata dal mare? Per esempio, Linschotten chiama la Cina « la dernière isle de la navigation orientale. » Nè può essere che ciò facesse per ignoranza. (YULE, loc. cit.) Aggiungasi che anche Marco Polo, come nota il Padre Marcellino da Civezza, « fece un corpo d'isole della costa S. E. dell'Africa. » (Stor. univ. delle Miss. Franc., vol. III, cap. XII.) Noi sospettiamo che questo tratto debba riferirsi all'isola di Ceilao, di cui, come vedremo in seguito, si dovrebbe entrare a parlare in questo luogo, e per uno scambio se ne parla altrove. In questo caso sarebbe più chiaramente spiegata e giustificata la parola « isola », usata da Odorico. E vero, peraltro, che i caratteri da esso assegnati a questa ch'egli dice isola, si converrebbero egualmente al Maabar (Coromandel), che il Polo trovò governato, al suo tempo, da cinque fratelli, l'uno, de' quali egli altamente celebra per le « molte, belle e grosse perle » e per le « tante ricchezze » che possedeva.
Sitografia
Wikipedia -
https://it.wikipedia.org/wiki/Mylapore
Lamori
Nome attuale: Lamreh, isola di Sumatra settentrionale
Nome: Lamori
Relatio: Cap. XII
"De hac contrata recedens et iens versus meridiem, veni per mare occeanum quinquaginta dietis ad unam contratam que vocatur Lamori, in qua incepi amittere tramontanam cum terra acceperit eam michi."
"Partendo da questa regione e andando verso sud, giunsi attraverso il mare oceano dopo cinquanta giornate in un paese che si chiama Lamori; cominciai a perdere la tramontana quando toccai quella terra."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XII.
Lamori forma la parte settentrionale di Sumatra. È qui che l'Odorico descrive la perdita della vista della stella nord, essendo stata intersecata dalla terra.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XXX.=====
- « Andando e tornando verso mezzogiorno col viaggio per mare di cinquanta diete, venne il Beato Odorico a Lamori. Col nome di Lamori in oggi non è conosciuto alcun regno dell'Indie. Nel nuovo Dizionario geografico abbiamo Lampon, città al fondo di un golfo nella parte più meridionale dell'isola di Sunzatra, in una contrada alla quale dà il nome. Colloca questa contrada di Lamori il nostro Viaggiatore nel regno di Sumatra. I costumi perversi assieme e crudeli de' Lamorini da lui descritti, di mangiare la carne umana, da Marco Polo si attribuiscono agli abitatori dell'isola di Angaman, cinquanta miglia discosta dal regno di Lambri; ed altri viaggiatori s'incontrarono la stessa usanza a vedere: in una dell' isole Filippine. Così pure l'andar nudi scorgesi praticato in molte parti dell'India. » (VENNI, note.) Il Pauthier vorrebbe che per Lomori o Lamori s'avesse a intendere Necouran al N. O. di Sumatra: ma questa opinione non pare accettabile. E invece senza nessun dubbio (dice il Yule) il Lambri di Marco Polo e del De Barros, il Lamuri di Rashiduddin, l'Al-Rami, Ramin, Ramni d'Edrisi e di altri geografi arabi, i quali sotto questo nome intesero l'intera isola di Sumatra. Il Lambri si trova menzionato anche negli annali del Malay. Par che fosse posto sulla costa N. O. dell'isola; e poichè era, forse, il primo porto di questa terra a cui approdarono gli Arabi, il suo nome venne da questi esteso all'isola intera. La vera sua postura non è ben nota; ma parrebbe che dovesse - 321 - trovarsi al Sud di Daya. Il Pegolotti rammenta il cinnamomo d'Ameri, che forse è il Lamori (L'amori, Atneri). (YULE, note ad Odorico e addiz.) Il De Barros nella enumerazione dei paesi di Sumatra segue quest'ordine: Daia, Lambri, Achem, Biar, Pedir, Side, Pereda, Pacem, Baraz, Iambi e Palimban. Il Colonnello Yule, quantunque non trovi paesi in Sumatra che abbiana le costumanze descritte da Odorico, pensa tuttavia che a quei tempi potesse essere in essa, presso la costa S. O., una colonia delle isole Nassau e Poggy, i cui abitanti vanno nudi, coperti soltanto di una striscia di scorza d'albero, e che a quanto si dice, pare che tengano le donne in comune. (YULE, note.) Anche potrebbe stare che que' di Nassau e di Poggy si fossero rifuggiti a queste isole per salvarsi dalle continue aggressioni di quei di Sumoltra, coi quali, dice Odorico, avevano continua guerra. Essi hanno i feroci costumi dei Battas; per cui non a torto sarebbero qui detti antropofagi. Che in Sumatra poi fossero degli antropofagi è fuori d'ogni quistione. N'abbiamo la testimonianza di Marco Polo; e il Conti ricorda che « in una parte della sopraddetta isola, che chiamano Batech (Battas), gli abitatori mangiano carne umana. » Onde scriveva il Lazari: « Vive ne' monti settentrionali di Sumatra una schiatta feroce di circa un milione d'individui, raccolta sotto un governo oligarchico, che parla e scrive un linguaggio particolare, professa una religione che nulla ha di comune con quelle de'vicini... Le antiche leggi ne fecero un popolo di antropofagi. Non mancanza di nutrimenti, non provate inimicizie traggono quella gente a così orribili pasti: si consumano i sacrifici umani e si cibano le carni delle vittime a sangue freddo, con apparato di pubblica solennità. Gli adulteri, i ladri notturni, i prigionieri di guerra, i rei di rapine, si mangiano vivi. » (LAZARI, Viag. di Mar. Polo.) Quanto alla comunità degli averi, non abbiamo potuto trovare altra memoria che in Malte-Brun, il quale fa parola dei Sumbarawes, che vivono tenendo tutto in comune sotto la direzione di un capo. Sumatra è sotto la linea, con un clima assai caldo, benchè in comparazione di altri luoghi posti alla medesima latitudine, non sia caldissima. I prodotti ricordati da Odorico, sono i suoi propri. Il riso vi si semina di due qualità; la canfora vi cresce spontanea nelle parti nordiche, e vi abbondano ricche miniere d'oro. Bisogna guardarsi di non confonderla con Lambra degli antichi, città sul continente dell'Asia al di là del Gange.
Sitografia
Wikipedia - Lamuri Kingdom
Sumatra
Nome attuale: Sumatra, isola di Sumatra meridionale
Nome: Sumoltra
Relatio: Cap. XII
"In hac eadem insula versus meridiem est aliud regnum nomine Sumoltra, in quo est gens valde singularis, signans se ferro parvo et calido bene in duodecim locis in facie; et hoc faciunt tam homines quam mulieres. Hii semper gerunt bellum cum hiis qui vadunt nudi. In hac contrata est magna copia rerum.
Penes quam est unum aliud regnum nomine Bothenigo versus meridiem. Multa que non scribo nascuntur in hoc regno."
"In quest’isola, nella parte meridionale, c’è un altro regno che si chiama Sumoltra, dove c’è un popolo molto singolare, che si fa dei segni con un piccolo ferro caldo in dodici posti del viso, e fanno così sia gli uomini che le donne. Questi abitanti sono sempre in guerra con gli altri, quelli che vanno in giro nudi. In questa regione c’è però grande abbondanza di ogni cosa.
Accanto a questa isola c’è un altro regno di nome Bothenigo, situato a sud e anche in questo regno accadono molte cose che qui non scrivo."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XII.
Odorico chiama in questo modo la parte meridionale di Sumatra e parla di un popolo singolare che si fa segni con un ferro caldo in diversi punti del viso. Indica che accanto a questa isola c'è un altro regno di nome Bothenigo, località non precisata dell'arcipelago indonesiano.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XXXI=====
- Il nome di Sumoltra è usato anche da Edrisi sotto la forma di « Soborma », e s'incontra anche in qualche edizione di Tolomeo, indicato dalla parola « Samarade », che forse n'era una corruzione. É fors'anco la Samara o Samarca di Marco Polo, se la sua Giava minore risponde all'isola che oggi chiamiamo Sumatra. Della sua postura il Lazari ragiona così: « Marsden ritenne che la Samara di Polo sia il porto di Samalanga sulla costa settentrionale dell'isola; Baldelli e Bürck accolsero questa opinione; Murray vi scopre invece la baia di Samangca all'estremità meridionale...; e concorrono circostanze non indifferenti a farci ritenere che Samangca è il porto descritto da Marco Polo. » (Viag. di Mar. Polo.) La città di Samudra, il cui nome poi s'estese a tutta l'isola, è spesso ricordata negli annali del Malay, e il suo re, a' tempi d'Odorico, o poco prima, s'era fatto mussulmano, pigliando il nome di Malik-al-Salah. Il tattuaggio non è noto se si pratichi tuttavia dai popoli di Sumatra; ma nelle vicine isole di Nassau, di Poggy e di Nias l'usano con la maggior possibile perfezione, assoggettandovisi i maschi e le femmine senza distinzione. (YULE, loc. cit.) Tutte le isole dell'Oceania, più o meno, abbondano di animali neri, di pollami e di riso; e lo stagno, di cui fa parola il codice Palatino, è prodotto ricco e famoso di quella regione. Il frutto chiamato Mussi, così genericamente descritto, non è facile trovare a che corrisponda; tanto più che la terra è copiosissima di ottirni frutti. Non so se si tratti di quello che colpì di maraviglia anche il Conti, e che egli descrisse così: « Nasce ancora in quest'isola (Sumatra) un frutto ch'essi dimandano duriano, ch' è verde e di grandezza d'una anguria, in mezzo del quale, aprendolo, si truovano cinque frutti, come sanano melarance, ma un poco più lunghi, d'eccellente sapore, che nel marigiare pare un butirro rappreso. » (Viag. del CONTI.) Questo frutto si dice oggi durione. Le tartarughe, com'è noto, frequentano quei mari, e la descrizione fattane da Odorico, sembra accennare al Careto.
=====Illustrazioni al Capo XXXII.=====
- Rezemgo. Paese, di cui Odorico non dà altra indicazione che la posizione meridionale, e il nome scritto in modi assai vari, crede il Padre Marcellino da Civezza che corrisponda alla regione dei Battas; il Yule, guidato dalla sinonimia, suggerisce il Rejang, o Redjong, i cui abitanti sono di linguaggio, di costumi e di forme differentissimi dagli altri di razza malese.
Java
Nome attuale: Java
Nome: Giava, Iava, Iana
Relatio: Cap. XIII
"Penes hoc regnum est una magna insula nomine Iava, que bene tribus millibus miliarium circumdatur. Rex huius Iave habet sub se bene septem reges corone. Hec insula multum bene habitatur, et est secunda melior insula que habetur in mundo. In ipsa enim nascitur ganfora et nascuntur cubebe, melegete nucesque muscate multeque alie species pretiose; in ea etiam est magna copia victualium preterquam vini."
"Accanto a questo regno c’è una grande isola di nome Giava, attorno alla quale si può girare per più di tremila miglia. Il re di Giava ha sotto di sé ben sette altri re tutti incoronati. Quest’isola è abitata molto bene ed è la seconda isola più bella che ci sia al mondo. In essa nasce la canfora e vi crescono cubebe, melaghette e noci moscate e molte altre specie di erbe preziose."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XII.
La definisce la seconda isola più bella che ci sia al mondo. Si trova la canfora, le cubebe detto anche pepe di Giava, meleghette detta anche melegueta o grani del Paradiso e noci moscate e molte altre erbe preziose.
Vi è grande abbondanza di vettovaglie, a eccezione del vino. Il re di quest’isola possiede un palazzo davvero meraviglioso. Infatti è di una grandezza enorme e le sue scale sono imponenti, alte e larghe. Esse hanno uno scalino d’oro e un altro d’argento, così come il pavimento del palazzo è d’oro da un lato e d’argento dall’altro. I muri di questo palazzo sono tutti ricoperti all’interno di lastre d’oro, sulle quali sono scolpiti cavalieri anch’essi d’oro, che portano attorno al capo un’aureola d’oro come hanno i nostri santi. E tutta questa aureola è piena di pietre preziose. Inoltre anche il tetto di questo palazzo è d’oro puro. Per dirla in breve e giungere alla conclusione: questo palazzo è più ricco e più bello di qualsiasi altro palazzo che ci sia oggi nel mondo. Il Gran Khan del Catai fu molte volte in guerra contro questo regno di Giava, ma questo re riuscì sempre vincitore e lo superò.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XXXIII.=====
- Qui il racconto comincia ad impacciarsi; e così le spiegazioni che se ne vorrebbero dare. Il Yule vi ravvisa l'isola di Giava. Circa quel tempo, cioè l'anno 1294, era in - 323 - Giava, secondo che apparisce da un'iscrizione, un re potente, di nome Uttungadewa, il quale avevasi assoggettati e fatti vassalli cinque re, e dominava tutta l'isola (Iawa dwipa). La grandezza esagerata attribuitale, proveniva dall'opinione degli Arabi, che non avendone veduta la parte meridionale, tenevano che da quella parte lungamente si protendesse. Il Polo ed il Conti le assegnano la stessa misura. (YULE, loc. cit.) E il Barthema la chiama « la più grande isola del mondo e la più ricca. » Una lettera del 1513, edita la prima volta dal Prof. Angelo De Gubernatis, nota che i Giaos (quei di Giava) « portavano (in Malacca) e portano Sandoli bianchi et vermigli; Verzino, Scamonea, et Turbit; et molti pimenti nei mantinimenti; Risi, Vini di palma che lor bevono. » (Storia dei Viagg. ital.) La parola Meleghete è indicata dal dizionario italiano come rispondente a cardamomo. Invece il Ducange, citando Odorico, la spiega per floris species, citando anche Rolando Patavino, il quale fa menzione di Meleghetae insieme alla canfora, al comino, al garofano e al cardamomo; il che dimostra che il cardamomo comune non era con la Meleghete la stessa cosa. In questi ultimi tempi Mellighetta, Malagueta, Manighetta, indicavano non di rado due specie d'amomo. che fanno in più luoghi della costa d'Africa; e talvolta il seme del pepe etiopico (Anona Ethiopica). Due qualità di amomo crescono in Giava, che potrebbero essere il Meleghetae d'Odorico. (YULE, note.) O non potrebbe essere il miglio, detto in alcune provincie d'Italia « melega », e in Giava tanto abbondante? Giava era talvolta indicata sotto i nomi di Dyava, G'ava, Yabadia, Yaba-diva, ossia, nota il De Gubernatis, Yaba-dvipa, Dyava-dvipa, che dalla radice div, significherebbe l'isola lumìnosa. Secondo altri, Java sarebbe una parola malaya, che significa grande isola; e non manca chi sostiene che tal nome sia venuto da quello del frutto jawa-vut (panicum italicum), di cui l'isola abbonda. Gli Arabi e i Persiani la chiamarono Djezyret al Maha-Radjah (l'isola del gran re); e quest'appellazione confermerebbe quanto asserisce Odorico intorno alla grandezza e alla potenza di quel re, di cui paventava lo stesso imperatore Kublai. Sonvi molti, che nella Giava maggiore del Polo, la quale è certamente la Giava d'Odorico, vogliono vedere l'isola di Borneo; tra gli altri il Bürck, che in Giava non trova l'oro e le gemme di cui parla il Veneziano, ed a cui in parte accenna anche il nostro Viaggiatore. Il Lazari, dal quale togliamo questa notizia, nota che per relazione di Th. Stamford Rawles, gli indigeni di Borneo dànno alla propria isola il nome di Iana Iava (paese di Giava) e di Nusa Java (isola di Giava).
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=====Illustrazioni al Capo XXXIV.=====
- Nota il Yule, non essere inverosimile il racconto del palazzo tanto ricco, di cui qui si fa memoria, purchè si avverta che quello che Odorico dice d'oro o d'argento, può intendersi dorato o inargentato. Bensì è difficile trovare il luogo dove questo sontuoso edifizio sorgesse. Infatti, la famosa capitale di Nadjapahit, di cui oggi si veggono le rovine, sembra che fosse posteriore a Odorico. E vent'anni dopo il suo arrivo in quei luoghi venne costruito, secondo Crawfurd, il tempio di Borobodo, che ha le muraglie tutte ornate di statue, le quali al Yule parvero dorate: e veramente il dorare l'aureola che lor mettono intorno al capo, è noto rito del Buddismo. Di palazzi dorati fa menzione anche Polibio, parlando di Ecbatana. (YULE, loc. cit) Circa le guerre col Gran Can che Odorico accenna, fa avvertire il medesimo Yule, che restano memorie di due spedizioni di Kublai contro Giava; con la prima delle quali chiedeva in via amichevole sottomissione e vassallaggio dal re dell'isola: ma essendo stata disdegnosamente respinta la domanda, ed oltraggiati inoltre i suoi ambasciatori, volle con una seconda spedizione prender vendetta dell'affronto e ottenere il suo intento. Se non che la fortuna non gli arrise, e dopo varie vicende, ebbe a ritirarsi. Così il Yule. Ma il Lazari conta invece, che « la flotta salpò da Zaiton, e costeggiando il Tonchino e la Cochincina, giunse in sessantotto giorni alla spiaggia nemica, non più per combattere; ma per ricevere gli omaggi e la sommissione del re. » Col Polo e con Odorico, come ognun vede, si accorda meglio la narrazione del Yule.
Sitografia
Wikipedia -
http://gutenberg.net.au/ebooks06/0605401h.html#ch06
Borneo
Nome attuale: Borneo
Nome: Panten, Panthen / Thalamasyn, Thalamasyn
Relatio: Cap. XIV
"Penes hanc contratam est una alia contrata nomine Panthen, quam alii vocant Thalamasin. Rex autem huius contrate multas insulas habet sub se. In hac contrata inveniuntur arbores farinam producentes, alique etiam producentes mel, similiter et vinum faciunt; ultimo etiam arbores illic inveniuntur que venenum producunt, quod est periculosius venenum quod hodie sit in mundo, nam contra ipsum non invenitur aliquod remedium nisi unum."
"Nei pressi di questa regione c’è un altro paese di nome Panthen, che alcuni chiamano Thalamasin. Il re di questo paese domina su molte isole. In questo paese si trovano alberi che producono farina, altri che producono miele e altre piante dalle quali similmente si può fare il vino. Infine in questo paese si trovano anche piante velenose, e il loro veleno è il più pericoloso che ci sia al mondo. Infatti contro di esso non si trova alcun rimedio, se non uno solo."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XIV.
Veleno
"In questo paese si trovano alberi che producono farina, altri che producono miele e altre piante dalle quali similmente si può fare il vino. Infine in questo paese si trovano anche piante velenose, e il loro veleno è il più pericoloso che ci sia al mondo. Infatti contro di esso non si trova alcun rimedio, se non uno solo. Se qualcuno avesse mangiato un frutto velenoso di questa pianta, deve prendere un po’ di sterco umano e scioglierlo nell’acqua; poi lo deve bere e subito sarà liberato da quel veleno."
Pane
"Gli alberi che producono farina lo fanno nel modo seguente. Si tratta infatti di grandi piante, molto alte; le tagliano con una scure intorno al piede, così che una specie di liquido esce fuori, come una colla. Mettono poi questo liquido in sacchetti fatti di foglie, che lasciano al sole per quindici giorni. E passati questi quindici giorni questo liquido si trasforma in farina. Allora pongono questa farina in acqua marina, e poi la lavano con acqua dolce. E così fanno una pasta buona con quanto hanno reso mondo, e con essa fanno ciò che vogliono, sia cibo, sia un pane molto buono, che anch’io fra’ Odorico ho mangiato. Tutte queste cose le ho viste con i miei occhi: questo pane poi all’esterno è molto bello, ma all’interno è alquanto ner
Mare dei morti
"Sulla costa meridionale di questo paese si trova il Mare dei Morti, l’acqua del quale scorre sempre verso sud; se qualcuno poi va presso la riva di questo mare e cade in acqua, non si riesce mai a ritrovarlo."
Canne di cassan
"In questa regione ci sono anche delle canne lunghe più di sessanta passi: sono alte come alberi. Si trovano anche canne chiamate cassan, che crescono per terra come la gramigna e in qualche nodo producono ramificazioni che sono lunghe un miglio. In queste canne si trovano pietre, che non si possono incidere o rompere con nessun ferro, se uno le ha sopra la testa; e gli uomini di questa regione portano pietre di questo tipo sopra la testa. Perciò, data la qualità che hanno queste pietre, gli uomini prendono i propri bambini, quando si fanno un taglio nel braccio, e mettono una di queste pietre sul taglio e, affinché quella piccola ferita subito guarisca, vi mettono la polvere di un pesce, così quella piccola ferita subito sparisce. E poiché queste pietre hanno tanto grande potere, gli uomini di questo paese le portano con sé e diventano forti in guerra e grandi corsari in mare. Se quando navigano in mare, vengono attaccati da qualcuno, si adopera questo rimedio. Portano con sé dei pali molto aguzzi di legno durissimo e anche frecce senza ferro, e poiché quelli che li attaccano sono male armati, quelli che navigano per mare li feriscono e li trafiggono con questi pali molto appuntiti e con le frecce. E in tal modo essi si difendono valorosamente dai loro nemici. Con queste canne di cassan si fabbricano anche vele per le navi, piccole capanne, sedili e molte altre cose utili per loro."
Odorico si riferisce a un paese chiamato Panten o Thalamasyn. Descrive alberi che producono farina e descrive "canne o canne come grandi alberi lunghi sessanta passi"; bambù. (Palm Sago) Altri alberi che producono mielee altre piante che similmente si può fare del vino.Ci sono piante molto velenose, definisce il loro veleno il più pericoloso del mondo.
Indica che sulla costa meridionale di questo paese si trova il Mare dei Morti, l'acqua scorre sempre verde verso sud.
Descrive accuratamente anche il bamboo chiamandolo cassan. Viene usato per produrre vele per le navi, piccole capanne, sedili e molte altre cose utili.
Parla di pietre durissime estratte dal bamboo. Vengono usate per le loro proprietà curative sui tagli. Probabilmente descrive il tabasheer, una sostanza dura, biancastra, traslucida, estratta dalle articolazioni di bambù. Composta principalmente da silice pura, questa gemma erbacea opalescente è molto apprezzata in Oriente per scopi medicinali ed è stata a lungo considerata una pozione d'amore di poteri quasi mitici.
Secondo la credenza orientale tradizionale, essere in un boschetto di bambù (una dimora preferita del Buddha) ripristina la calma e stimola la creatività. Chiamato "tian zhu huang" in mandarino, che si traduce in "bambù celeste giallo", il tabasheer è una sostanza versatile e molto richiesta, descritta come di natura fredda e dal sapore dolce. Anche se i tabasheer provengono da diversi tipi di bambù, la maggior parte delle secrezioni silicee di questa erba sono state trovate in Melocanna baccifera, Bambusa textilis e Gigantochloa apus.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XXXV.=====
- Non è facile trovare con certezza a qual luogo corrisponda Paten. II Polo anch'egli ricorda un'isola Pentan, Pontam, Pantayn, Pontavic, Petan, secondo i vari codici; e forse è la stessa di quella d'Odorico. Il Barthema a quindici giornate dalla punta settentrionale di Sumatra trovava Bandan, isola brutta, triste, bassa, dove la gente è bestiale. Il Federici, per andare a Malacca da Goa, s'imbarcava « in un gallone del re di Portogallo che andava a Bandata a cargare noci muschiate e macis. » Il Conti a quiridici giornate da Giava maggiore verso levante, incontrava « due isole; una detta Sandai, nella quale nascono noci moscate e macis, ch'è il suo fiore; l'altra... Bandan, nella quale nasce solamente il garofano... Il mare oltre queste due isole è innavigabile per li continui venti e fortune. » In una lettera del 1513 edita dal De Gubernatis (Storia dei Viagg. ital.) troviamo: « Apreso questa terra Giava ottanta legue sono due insule, che si chiamano le insule di Bandan, dove nascono le noce moscade. » Ma questa Bandan era troppo fuori di mano per Odorico, che non si potea spinger tant'oltre. - 325 - Ci fa sapere il Yule che molti luoghi hanno un tal nome; ma non esser facile scegliere piuttosto l'uno che l'altro. Chè il significato di questa voce, secondo il Crawfurd, è molto vario. Pantay o Pante, nella lingua malaia suona riva, o sponda; Pantan o Pantian, luogo sulla riva; e Panti, in giavanese, significa « dimora. » Thalamasyn poi, o Malamasmi, d'altri codici, secondo lo stesso Crawfurd, potrebbe venire da Talaga Masin, che in lingua malaia significherebbe Lago di Sale: nessun isola però ci è nota dell'Arcipelago, che porti tal nome. Il Yule suggerirebbe anche Tana masin (terra del sale); ma neppur di questa terra s'incontra vestigio. E ricorda anche Benjarmasin, regno che fioriva nell'undecimo secolo, e che in altri tempi era stato vassallo di Majapahit. Nelle carte poi di Steiler è segnata col nome di Panthe la bocca di un fiume all'est della città di Borneo; e nel « Dictionary of tbc Indian Islands », nella carta di Crawfurd, quasi allo stesso luogo trovasi Talysian. E il Rémusat (Melanges Asiat. II), negli estratti della Enciclopedia Japanese, dà una nota di contrade, tra le quali, al Sud di Cambodia, si trova il nome di Taumaling, subito dipoi quello di Kwawa o Giava. Il nostro Odorico la descrive una terra fra Giava e Campa, con piante di sagù e di canne, copiosa di veleni potenti; i cui abitanti sono belligeri, e usano pietre inserite nella pelle, come amuleti; e secondo il testo della Palatina, usano freccie avvelenate che lanciano con una sarbacana. Vi è una corrente impetuosa di mare che porta verso il mezzogiorno. Finalmente nelle aggiunte del codice Marciano, di cui si disse più sopra, leggesi: « Sopra quello che s'è scritto de la contrada Talamassin, disse che v'ha albori che producono sevo per questo modo: sono albori che fanno frutti a modo di ciriege con noccioli dentro. Quando son maturi diventano bianchi; coglienli et cavano quelli noccioli, et poi li frutti fanno cuocere in caldaia al fuoco; et quelli si stemperano et squagliano, et quando sono stemperati diventano sevo. Et di quello sevo s'adopra per tutta India nelli loro bisogni. E sopra quello... che dice, che sono canne grande come albori, disse che erano sì grosse che, fendendole per mezzo, da l'uno nodo a l'altro, si passerebbe nella mezza uno fiume a modo come in una barca...; e disse che vide cuoio di serpenti che s'andava vendendo, e ch'era lungo più di braccia sei. » Parla inoltre del corseggiare e delle freccie, come ha la Palatina; e dipoi di episodi inverosimili, che perciò omettiamo. Per dir qualcosa anche noi di questa Paten, notiamo prima di tutto che le navi cinesi frequentano assai lo stretto di Macassar; per cui non è difficile che Odorico passasse per quello. In quanto ai caratteri che ce ne dà, troviamo che il Yule dal « Journal of the Royal - 326 - Geographical Society, XV, 359 » trae la recente notizia che le isole da Giava e Timor son separate da stretti e profondi canali, dove le acque, spinte dai venti d'Oriente, corrono impetuosissime. Il De Barros narra che era voce tra i nativi, che chi traversasse lo stretto di Bali al Sud, sarebbe talmente portato via dalla corrente, da non poter far più ritorno. Lo stesso avverte Frate Mauro nel suo Planisferio. Conviene, dunque, cercare il Paten, o Banchan, tra l'isola di Borneo e Celebe, o lì intorno. Vorrem dire che sia il regno di Macassar, il quale ha tra i suoi distretti anche Bonthain, vicino di suono al Paten, e che il Macassar rispondesse al Malamasmi? Come tutti gli abitanti di quelle isole, i detti popoli sono valorosi e arditi pirati, famosi per la loro valentia nel trar frecce avvelenate con la sarbacana: e' formarono già un regno possente e temuto, che esiste ancora, contando dieci secoli di vita. Le loro case sono in legno, come nelle citate giunte del codice Marciano è detto; e portano indosso pietre, alle quali attribuiscono maravigliosa virtù. Il sagù, le palme in genere, il bambù, la canna di zucchero vi prosperano a maraviglia. Circa i veleni che vi si generano, ecco quel che ne scrive il Malte Brun: « Célèbes produit les plantes les plus véuéneuses que l'ori connaisse. Le fameux « oupas » dont l'existence a Java est euvironnée de fables, croit bien certainement dans cette ile, puisque les Macassars trempent leurs poignards dans le terrible poison qui eri decoule. » (Précis de la Geogr.) Il Dalton racconta di un uomo morto in quattro minuti per una ferita di queste frecce avvelenate, e si dice che possano uccidere in pochi minuti anche un elefante. L'antidoto che insegna Odorico somiglia a quello che praticano in Abissinia, morsi che sieno da un serpente velenoso; in fatti Ludolf nella sua « Historia Aethiopiae » scrive, che Abba Gregorio di Abissinia, « excrementis humanis in acqua desumptis curari dicebat; quod remedium Panthera forte homines docuit, quae si carnem a venatoribus aconito perfricatam voraverit, merda humana sibi medetur. » Fa avvertire qui il Yule che il nostro Beato è il primo a farci sapere che i selvaggi dell'Australia lanciano frecce colla sarbacana. Dell'albero del sevo, trovo nel « Dizion. geog. ital. » (alla voce Macassar) la nota seguente: « Vi cresce (nel Macassar) una specie di noce, le cui noci sono più piccole di quelle d'Europa. Si fanno cuocere colla polpa bianca del cocco, e si fabbricano con esse delle candele che danno luce buonissima. » Dai grossi serpenti che crescono nelle isole dell'Arcipelago, potevano benissimo aver tratto una pelle, che se non era precisamente di sei braccia, avesse una lunghezza assai considerevole. - 327 - Dell'albero della farina, mi riserbo a dire nel Capitolo seguente. Qui faccio soltanto avvertire coll'Yule, che per miele devesi intendere o zucchero di canna, o il liquore di qualche specie di palma: poichè anche il Pegolotti distingue, il « mele d'ape, mele di cannamele, mele di carrubi. »
=====Illustrazioni al Capo XXXVI.=====
- Il racconto del modo con cui si fa la farina di sagù, secondo il Yule, non è esattissima; ma ben può stare che Odorico ne vedesse la manipolazione. Essa, per altro, nel racconto viene confusa con manipolazioni di altro genere. Oppure, può essere che Frate Guglielmo da Solagna non si esprimesse in modo abbastanza chiaro e preciso. Certo è che le varie operazioni a cui egli accenna, non certo inventate a capriccio, non tutte appartengono alla manipolazione della farina di sagù. Il sagù è una pianta più grossa del cocco, ma più bassa. Per averne la farina, conviene abbatterlo, spaccarlo, estrarne il midollo, sminuzzandolo; ed è la farina; la quale poi si lava e si spreme, e messa finalmente in cestelli di foglie di sagù (sacculis de foliis factis), viene serbata per gli usi della vita o venduta. Queste operazioni nel racconto del da Solagna sono notabilmente alterate. Per esempio, l'incisione del tronco, con vasi sottoposti per riceverne il liquore che ne cola, è il modo con cui s'ottiene il vino di palma e le varie gomme; e queste si coagulano e si addensano al sole, così come dice Odorico. Forse narrando il Beato tutte queste varie cose insieme, l'una appresso all'altra, Frate Guglielmo le confuse, e ne venne il racconto che noi possediamo. Ma vi sarebbero da fare altre considerazioni. Ora io non ricordo bene il processo onde si ottiene il sagù dalla palma chiamata anou, la quale dà questa farina e un liquore spiritoso; nè in questo momento mi è possibile di fare altre ricerche. Ho peraltro nella mia mente, che questo processo si avvicini un po' di più a quello narrato da Odorico. La canna grossa come l'albero, è il noto bambù, che cresce talvolta a maggiore altezza dell'indicata da Odorico; essa è per ordinano da ottanta a cento piedi lunga, e nell'Oceania ancora di più. Nel Pegù racconta il Yule di averne veduta una di dieci pollici di diametro. L'altra canna che serpeggia come gramigna, è il Rotin, del quale il Gosse, citando Rumphius, scrive essersene trovato uno lungo 1200 piedi. Anche nel descrivere gli usi di queste due specie di canne, v'è confusione. Dei Rotin « ce ne sono di molte specie e di varie grossezze; i giunchi onde si fanno sì belle canne, sono di Rotin...: la sua tenacità, la sua pulitura, la sua flessibilità, la proprietà di poter esser fesso sottile sottile, il fanno impiegare a far corde, a guarnire canapè e sedie, a fare cancelli, stacci, panieri, stuoie, a fare ogni sorta - 328 - di legature. » (PALLEGOIX, Descrizione del regno di Siam.) Col bambù poi, scrive il Malte-Brun, « ils construisent leurs maisons,... et le couvrent avec de feuilles de palmier. » Le pietre di cui parla Odorico, sembrano al Yule i depositi silicei che talvolta si formano nel bambù. Circa la favolosa virtù di queste pietre, ci basti sapere che tale era l'opinione corrente a quei tempi. Anche il Conti scrive: « Nell'isola maggior di Java aver inteso che vi nasce un arbore, ma di rado, in mezzo del quale si trova una verga di ferro molto sottile, e di lunghezza quanto è il tronco dell'arbore; un pezzo del qual ferro è di tanta virtù, che chi lo porta indosso e gli tocchi la carne, non può esser ferito d'altro ferro; e per questo molti di loro s'aprono la carne, e se lo cuciono tra pelle e pelle, e ne fanno grande stima. » E il Polo dice, che nel Giappone « otto (uomini) non si potevano decapitare per la virtù cíi certe pietre incantate che portavano nascoste nelle loro braccia fra carne e pelle, le quali assicurano chi le porta dal morire per ferro. » E John ricorda, che gli isolani di Borneo credono di potersi rendere invulnerabili con un mezzo ch'e' non descrive. (YULE, loc. cit.) Del bambù scrive il Papi (Lettere): « Il bambù serve a una quantità di usi; se ne fanno vasi da bere, e da trasportar acqua, stuoie ed altri lavori; se ne può trarre una specie di zucchero; e certi teneri suoi germogli si acconciano in aceto e in conserve. Negl' internodi di questa pianta trovasi un liquore denso e dolce, che coll'andar del tempo indurisce, diventa simile all'amido in pezzi, e chiamasi Tabaxir. Si è recentemente scoperto che questo sugo tiene sciolta della silice. » Il « sestoria » di Odorico, oggetto che si forma col bambù, il Yule lo spiegherebbe sessoria, seggiola; il Righini suggerisce, « seu storeas », stuoie. Intorno al nome Casan o Casar, dato al bambù, il Yule non saprebbe se debba dirsi venuto dall'arabo Khaizurah (ossia, Bambù); o dall'arabo Cassab (cioè, Canna). Il Padre Vincenzio Maria avverte, che i corsari dell'India usano per arme lunghe aste d'Arecha, e « per penuria di ferro non v'aggiungono altra punta, che d'auguzarle e farle passare per il fuoco, con che dove non incontrano armature, servono ugualmente bene, come se fossero d'acciaio. » Ed anche il Magellano nella sventurata spedizione in cui lasciò la vita, trovò, dice il Pigafetta, che l'esercito del re Cilapalu, appunto in quei medesimi mari, « non aveva lancie, se non alcune canne abbruciate e legni acuti abbruciati. »
Sitografia
Wikipedia - Tawalisi
Wikipedia - Urduja
Wikipedia - Thalamasin
Wikipedia -
Wikipedia - Tabasheer
The years 1316-1318 can be traced back to the Majapahit Empire, the greatest, powerful and gloriest empire ever in the archipelago. It was a vast archipelagic empire based on the island of Java from 1293 to around 1500. Majapahit reached its peak of glory during the era of Hayam Wuruk, whose reign from 1350 to 1389 was marked by conquest which extended through Southeast Asia. His achievement is also credited to his prime minister, Gajah Mada. Majapahit was an empire of 98 tributaries, stretching from Sumatra to New Guinea; consisting of present-day Indonesia, Singapore, Malaysia, Brunei, southern Thailand, Sulu Archipelago, Philippines, and East Timor.
Odoric also reported: "Near to this country is another which is called PANTEN, but others call it THALAMASYN, the king whereof hath many islands under him. Here be found trees that produce flour, and some that produce honey, others that produce wine, and others a poison the most deadly that existeth in the world. For there is no antidote to it known except one; and that is that if anyone hath imbibed that poison he shall take of stercus humanum and dilute it with water, and of this potion shall he drink, and so shall he be absolutely quit of the poison. [And the men of this country being nearly all rovers, when they go to battle they carry every man a cane in the hand about a fathom in length, and put into one end of it an iron bodkin poisoned with this poison; and when they blow into the cane, the bodkin flieth and striketh whom they list, and those who are thus stricken incontinently die.]" This could be the Kalimantan Island. Thalamasin could be Banjarmasin and mention of the Sumpit or blow-pipe of the aborigines. (http://grahamhancock.com/phorum/read.php?1,354403,1028107)
Bezoar
http://alwestmeditates.blogspot.it/2015/11/odoric-on-sago.html
Campa
Nome attuale: Annam, probabilmente area della costa tra Cambogia e Vietnam meridionale.
Nome: Campa, Zampa
Relatio: Cap. XV
"Ab isto regno per multas dietas distat aliud regnum nomine Campa, cuius contrata multum est pulchra; nam in ipsa est magna copia omnium victualium et bonorum."
"A distanza di molte giornate di cammino da questo regno, si trova un altro regno di nome Campa, il cui territorio è molto bello: infatti in esso c’è grande abbondanza di ogni vettovaglia e di altri beni."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XV.
Descrive il paese come molto bello con grande abbondanza di ogni vettovaglia e di altri beni, la diffusa presenza di elefanti addomesticati, l'abbondanza di pesce e descrive un fenomeno che si verifica una volta all'anno quando arriva tanto pesce sulla costa da poterne raccoglierne direttamente in riva al mare. In questo paese Odorico afferma di aver visto una testuggine più grande di una delle cupole della basilica di Sant'Antonio di Padova.
Odorico riferisce dell'usanza di origine Hindù, Sati, che se muore uno che ha moglie, il suo corpo viene bruciato, e anche la moglie viene bruciata viva. Questa usanza era in uso nel regno di Champa, nel 1307 il re chăm Jaya Siṃhavarman III ("Che Man"), fondatore del tempio tuttora esistente di Po Klaung Garai nel Panduranga, cedette due distretti settentrionali al Dai Cô Viêt in cambio della mano di una principessa vietnamita. Il re tuttavia morì poco dopo le nozze e la principessa ritornò nel Dai Cô Viêt per evitare di seguire il costume chăm secondo il quale avrebbe dovuto accompagnare il marito nella morte.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XXXVII.=====
- Questo Zapa, Zampa, Campa, del Beato Odorico, è di certo il Ziamba di Marco Polo, il Chiempa del Pigafetta, rispondente al moderno Ciampa, Phan-rang, Binh-tuam, detto dai Tonchinesi, Chiem thanh, o Xièm-Thanh. Ora è una provincia dell'impero d'Annam, posta tra i monti Tchampada e il mar della Cina. « La storia di questa provincia (dice il Lazari) è involta nella più fitta oscurità; sembra però che sotto il nome di Ciamba (o Ziampa) si comprendesse l'intera Cocincina, il cui re dopo la caduta dei Song offerse omaggio e tributo a Cubilai. » - (Viaggi di Mar. Polo.) E tale era pure l'opinione di Rémusat, che non esita a dire: « Ciampa, c'est-à dire la Cochincine. » (Nouveaux Mel. Asiat., tom. I.) Anche il Conti, tornando da Giava a Coulam, nomina un Campaa, « città, che è nella costa del mare, nella quale vi è molto legno aloè, canfora e gran copia d'oro: » ma questa è una città che il Yule ci fa sapere aver esistito sul Gange, dalla quale, secondo il medesimo, ebbe nome Binthuan, quando si fu convertita al Buddismo. Il Polo, che fu in Ciampa nel 1285, racconta che il re avea 326 figliuoli tra maschi e femmine: il Rémusat nelle « Nouveaux Mélauges Asiatiques » ha una relazione Cinese, da cui apparisce che un re di Cambodia tenea cinque mogli e da tremila a cinque mila concubine. L'ultimo re di Persia Futch Ali Shah, lasciò tremila figliuoli, e uno di questi, Sheikh Ali Mirza, ne aveva sessanta. (YULE, loc. Cit.) Ciarnpa è sempre stato tenuto, ed è, difatti, il paese più copioso di elefanti che si conosca: le campagne ne sono piene. « Le pays de Tsiampa (dice il Malte-Brun) est en grande partíe peuplé de tigres et d'éléphantes. » Ed ancora le genti di quelle regioni meridionali dell'Asia li mantengono a grandi mandre, servendosene per trasporti e per altri usi, e ognuno un po' agiato ne tiene una quantità. Rispetto al fatto dei pesci che annualmente vengono alle coste di Ciampa, il colonnello Yule reca le seguenti parole di Duhalde: « Dans la province de Kiang-nan ori volt surtout de gros poissons venant de la mer, ou du fleuve Jaune, qui se jettent dans des vastes plaines toutes couvertes d'eau; tout y est disposé de telle sorte que les eaux s'écoulent aussitót qu'ils y sont entrés. Ces poissons démeurants à sec ori les prend sans peines. » E evidente però che qui Odorico descrive i pesci che in grossi banchi vanno a depositare le uova sul lido; almeno tutti i particolari datine, combinano perfettamente. Il signor Labilardière vide in quei mari banchi sì grandi di pesci, che muovendosi imprimevano al mare un moto come di flusso e riflusso. Non è adunque assurdo il racconto di Odorico. Il Yule non trova in nissun libro antico, nè moderno, memoria di ciò; ma può essere che ora i pesci che solevano depor le uova sulle coste della Cocincina, si siano sviati. Della spiegazione poi che ne davano i nativi, Odorico non è che relatore. - 330 - Qui alcuni testi aggiungono, che Odorico vedesse una tartaruga più grossa della cupola della chiesa di Sant'Antonío a Padova. Il passo manca in molti testi, laonde potrebbe anche essere interpolato. L'autore del Discorso intorno all'Itinerario fa osservare, che tal « paragone è fatto colle piccole cupole della prima costruzione della chiesa, non già con la cupola dell'Angelo dell'attuale Basilica, che fu così elevata nel 1424: » ma nota il Yule, che anche la più piccola delle varie cupole di detta chiesa ha quaranta piedi di diametro, mentre la più grande delle tartarughe di mare (chelonia midas) è circa tre metri: per la qual cosa la esagerazione è sempre grande. Devesi nondimeno riflettere che le cupole di chiese sì vaste, come quella di Sant'Arrtonio, tra per la lontananza dall'occhio dello spettatore, e per la misura che se ne fa con la grandezza delle altre parti che a quella corrispondono, compariscono assai più piccole di quello che non sono: conosco persone, e non volgari, che entrati nel duomo di Firenze, non trovarono la cupola sì grande come se l'erano rappresentata: ad altre parve piccolo San Pietro di Roma: un altro giudicò la torre di Giotto a Firenze quasi eguale, se non inferiore, al campanile della propria parrocchia! É da notare che la torre di Giotto è vicina ad alte fabbriche e all'immensa cupola che le sovrasta, mentre il campanile di quel messere, ergevasi assai alto tra povere e misere case accanto ad una piccola chiesuola. Da ciò si fa manifesto, che in tali misure dí confronti fatte a occhio, tra oggetti lontani e veduti in diverse circostanze, non è da ricorrere al preciso rigore delle seste e del compasso, che potrebbero porre in impaccio e far arrossire anche un esercitato geometra. Il Yule osserva che molte case del Pegù, secondo Vincent Le Blanc, venivano allora coperte con carpaci e piastroni di tartaruga, e pensa che veduto da Odorico un tetto di tal forma, credesse un sol piastrone, o un sol carpace, quello che invece componevasi di molti artificiosamente uniti insieme. Dell'uso di abbruciare le vedove vive insieme ai morti mariti, abbiamo parlato altrove. Non si trovano conferme dell' asserzione dí Odorico, che tal costume vigesse in Ciarnpa; ma non è impossibile.
Sitografia
Wikipedia -
https://it.wikipedia.org/wiki/Annam
https://it.wikipedia.org/wiki/Champa#Il_declino_(XIII-XV_secolo)
Nicobar / Andaman Islands
Nome attuale: Isole Andemane / Nicobare
Nome: Nichonoram,
Relatio: Cap. XVI
"De hac contrata recedens et navigans per mare occeanum versus meridiem, reperi multas insulas et contratas, quarum una est que vocatur Nichonoram. Hec insula magna est, circuens bene per duo milia miliaria; in qua homines et mulieres facies caninas habent. Hii unum bovem adorant pro deo suo, propter quod unusquisque unum bovem de auro vel argento in fronte semper portat, in signum quod ille bos est deus eorum."
"Partendo da questo paese e navigando per l’Oceano in direzione sud, incontrai molte isole e regioni, tra le quali una si chiama Nichonoram.
Quest’isola è molto grande e ha una circonferenza di duemila miglia; gli uomini e le donne di queste isole hanno facce canine. Adorano come loro dio il bue, per cui ognuno porta sempre sulla fronte un bue d’oro o d’argento, come segno che il bue è il loro dio."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XVI.
Descrive questo popolo come uomini e donne hanno facce canine.
L'arcipelago si trova sull'antica rotta commerciale dei monsoni dell'Oceano Indiano da e verso la Cina, come documentato dal manoscritto arabo Akhbar Al-Sin wa'l-Hind (trad. "Relazione sulla Cina e sull'India") scritto a metà del nono secolo da mercanti islamici. L'arcipelago costituiva una tappa per i rifornimenti dei convogli, senza che vi fosse sviluppo di colonie commerciali sulle isole[3].
Domenichelli
=====Illustrazioni ai Capi XXXVIII, XXXIX, XL.=====
- Uniamo in una sola nota tutti e tre questi Capitoli, perchè tutti e tre ci compariscono fuori di luogo, e un ammasso di notizie, vere sì, ma appartenenti a popoli e a terre diverse. Il racconto che fino a qui procedè ordinatissimo e mirabilmente esatto; in questi tre capitoli, stando alla lettera, presenta difficoltà insuperabili. Alcuni hanno voluto dire, che questi tre capitoli siano un' Interpo- - 331- lazione fatta da' copisti; ma il trovare in tutti i manoscritti antichi le stesse cose che qui si narrano, non ci consente di accettare l'ipotesi di un'alterazione così sostanziale. Noi dunque teniamo che tal confusione sia da attribuire a Frate Guglielmo da Solagna, che primo distese il racconto. Vi si parla primamente delle isole Nicimeran, ossia Nicobar, e di Ceilan, le quali sono affatto fuori del cammino da Ciarnpa a Canton, per dove era diretto Odorico, e che non poteva davvero tornare indietro per sì lungo tratto di via, e poi da capo rifare quel cammino. Per cui addiventa probabilissima l'ipotesi di que' corrimentatori, Che pensano doversi alluogare subito dopo il racconto sul Malabar quel che qui si dice di Ceilan. Se non che, non si tratta di una semplice trasposizione di capitoli, come i detti cornmentatori sospettano; ma di una immischianza di notizie di paesi diversi, attribuite a un solo, come vedremo chiaramente trattando a parte di ciascuna. A Odorico, che sino a qui trovammo esattissimo, e continua esattissimo dipoi, non possiamo davvero farne colpa: egli dovette dare allo stesso modo di ciascun luogo i particolari che ricordava e che vi si riferivano. Che Frate Guglielmo abbia aggiunto e colorito di suo le descrizioni, nè anche può essere; primo, perchè se tale fosse stata la sua maniera di fare, l'avremmo, più o meno, in tutto il racconto; secondo, perchè le notizie date, sebben confuse, sono vere: il che tornerebbe impossibile in una descrizione inventata di pianta. Escluse tutte queste ipotesi, resta a spiegare come mai Frate Guglielmo, che fin qui aveva tanto fedelmente seguitato il Beato che dettava, ne' tre capitoli seguenti cadesse in tanta confusione. A nostro giudizio, fu a questo modo. Trattandosi di luoghi incogniti e nuovi, la somiglianza di qualche nome lo trasse in inganno, e così di parecchi paesi ne fece un solo. Quindi lo scompiglio dell'Itinerario, che deploriamo. Nella dilucidazione adunque delle notizie di questi capitoli, oltre la verità di esse, anderemo cercando la sinonimia dei nomi che indichi i paesi ai quali si riferiscono; certi che di quelli il Beato intese parlare. Nicimeran, Sacimeran, Richanoram, Machimoram, Inzimezan, secondò i testi diversi, ci fa sovvenire delle isole Nicobar, dette dal Polo, Necaran, Necuveran, Necouran, Neguerra, Necoram, Neciveram, dove veramente « le genti (dice lo stesso Polo) vivono come le bestie e vanno affatto nude. » Ma da questo costume in fuori, null'altro di quel che narra Odorico vi corrisponde, e nessuna di quelle isole è della grandezza che il Beato le assegna. Uomini dalla testa di cane dicevasi allora che fossero gli abitatori delle isole Andarnan, e i Kha, delle parti più meridionali dell'Asia, per la speciale configurazione del loro capo, - 332 - che per arte e per natura allungato, rassomigliava a quello di quest'animale. E i Kha, di fatti, ne ritraevano talmente la sembianza, che i deputati Cinesi, i quali nel 1295 penetrarono nel lor paese, li appellarono Tsung, che nella lor lingua suona « cani. » Il Padre Eusebio Nieremberg (Histor. Nat., tit. VIII, cap. I.) credette che ne fossero anche tra le nazioni della Tartaria. « Gli abitatori dell'isole Andaman (dice il Lazari) discendono, secondo il Rienzi, dagli Andameni o Aetas, indigeni di Calemantan (Borneo); la loro tinta è fuligginosa, la statura passa di rado i cinque piedi; le labbra hanno sporgenti, schiacciato il naso, turgido il ventre; il loro aspetto più canino che umano li assomiglia ai selvaggi abitatori dell'Australia. » Antropofagi venivano detti, ed erano, quelli delle medesime isole d'Andaman, oltre i selvaggi dell'Arcipelago, di cui già toccammo di sopra. A' tempi del Polo, erano antropofagi, se dobbiamo stare alle sue parole, anche i Giapponesi; i quali, dice egli, « quando prendono alcuno uomo che non sia di loro schiatta, nè riscattar si possa, convitati i parenti e gli amici, lo uccidono e cotto lo mangiano, e ritengono che la carne d'uomo sia la migliore vivanda. » (Trad. del LAZARI) E questa descrizione è quasi ad verbum quella d'Odorico. Lo scudo, del quale si servivano a difesa del corpo nelle mischie, è ricordato dal Pigafetta nel racconto del combattimento in cui perì il Magellano, ed è usato dai Vyas, dai Diayks, e dagli isolani della Formosa; ed anche, secondo il Polo, nel Coromandel.
Sitografia
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https://it.wikipedia.org/wiki/Andamane#Storia
After the above description concerning the bamboo and rattan there follows a description of three islands which has puzzled many a critic, principally because it does not appear to refer to any islands in the vicinity of Java. These three islands bear the names of Nicoverra or Nicoveran, Sillan, and Dondin.
We are inclined to believe that the reference made to these islands has been interpolated from Marco Polo's work. Marco Polo describes Nicoveran (Nicobar Island) and Sillan (Ceylon). Dondin or Dondyn may refer to Candin or Candyn. If we turn to Martin Behaim's globe, 1492, or to any of the globes or maps which bear Marco Polo's nomenclature, we shall find all the islands in question set down in the vicinity of Java, which appears to solve the mystery.
The Discovery of Australia
Author: George Collingridge
Fonte: http://doglawreporter.blogspot.it/2012/03/dogs-of-marco-polo.html
Silan
Nome attuale: Ceylon, Sri Lanka
Nome: Silan
Relatio: Cap. XVII
"Alia est etiam insula nomine Silan, circuens bene per plura quam duo milia miliarium. In qua sunt serpentes infiniti multaque alia animalia silvestria in maxima quantitate, ut potissime elephantes."
"C’è anche un’altra isola di nome Silan, che si estende per una circonferenza di oltre duemila miglia. In essa c’è un numero infinito di serpenti e si trovano anche molti altri animali selvatici in grande quantità, soprattutto elefanti."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XVII.
Domenichelli
Le isole d'Andaman non avevano re; onde è chiaro che il racconto intorno alla pietra preziosa non si riferisce a que'luoghi. Aitone l'armeno, Marco Polo, Frate Giordano, Ibn-Batuta, attribuiscono la gemma grossissima, lampeggiante come fuoco, al re di Ceylan, e parlano anch'essi delle molte premure fatte dall'imperatore della Cina per averla. Questo tratto adunque nel racconto del Nostro vorrebbe essere aggiunto al capitolo che parla di Ceilan. La collana, o corona di perle, viene ricordata dal Polo parlando del re di Mabar, con queste parole: « Il re va pure come gli altri (cioè nudo), e solo copre il sesso con panni più fini, e porta al collo un monile di pietre preziose, come rubini, smeraldi ed altre gemme; sicchè quel monile vale un tesoro. Gli pende eziandio sul petto una cordicella di seta, a cui sono attaccati da centoquattro fra perle grosse e rubini di gran valore; e la porta per questa ragione, che deve ogni giorno alla mattina e alla sera recitare ad onore de' suoi idoli centoquattro orazioni: così comanda la legge ch'egli segue; così fecero i suoi maggiori. » E il Padre Marcellino da Civezza nel suo commento al Viaggio d'Odorico, citando il Lazari, scriveva così: « L'uso di - 333 - tali rosari per accompagnare le orazioni è comune ai popoli che professano le religioni di Brama, di Budda e di Maometto. Il numero delle pallottole del rosario buddistico è asserito da Marsden essere di centotto; lievissima discrepanza da quella di Marco Polo che le calcolava centoquattro. Ma ben più grande è la differenza, secondo il computo del nostro Beato, che notonne trecento. » (Storia univ. delle Miss. Franc., vol. III, cap. XII.) A noi pertanto parrebbe che il Beato parti qui, non già del rosario comune, ma di quello che era particolare del re; e nella religione di Budda, la quale pone tante differenze tra le varie caste, non è punto difficile che fosse stato imposta al re la recita di un rosario diverso dagli altri. Ma nè questo rito, nè l'adorazione del bue, riguardano punto le isole d'Andaman: si praticavano invero nelle Indie, nella Cina, nel Giappone e nell'isola di Ceilan. La descrizione che segue dell'isola di Ceylan, toltane la grandezza esageratissima, corrisponde a perfezione. Nè l'eccessiva grandezza può recar maraviglia, quando si pensi che Odorico non potea misurarla da sè, e di quei tempi; e anche lunghi secoli dipoi, si persistette a dirla sì grande. Marco Polo; seguendo la voce comune dei marinai d'allora, le dà duemila e quattrocento miglia di giro; il Conti due mila, come Odorico; e così di seguito, quanti sono viaggiatori ne ingrandiscono smisuratamente le dimensioni. « L'originaria forma ortografica (dice il Lazari) del nome di questa celebre isola, che gli antichi conobbero sotto il nome di Taprobana, applicato però anche in epoca non rimota a Sumatra, è Sinalam, che in seguito si mutò in Sielendiva e Serendib, e presso gli odierni indigeni si dice Singala o Scingala; nel nome Selan riconosce l'Humboldt il nome di Selediba o Selediva di Cosma Indicopleuste, perchè diva non è che la terminazione sanscrita dvipa, isola... Ceilan è rinomata per la copia e la varietà delle gemme; i rubini però ne sono più che altro ricercati. »(Mar. Polo, trad. del LAZARI.) Intorno ai prodotti dell'isola, e agli animali che vi sono, ecco quel che ne dice il Dizionario geogr. ital.: « Vi si trova del cristallo di rocca, delle calcedonie, il più bel quarzo che si conosca, quello chiamato occhio di gatto, della pietra lunare, granate, topazi, giacinti, rubini, zaffiri, tormaline, ametiste... L'elefante è l'animale più notevole di Ceylan, la sua forza e la sua docilità rendendolo superiore a quello delle altre contrade... Fra le bestie selvagge si ricorda la gazzella, il daino, il cignale, la lepre; e fra le fiere, il leopardo, la iena e molti orsi. I rettili, e specialmente i serpenti, sono in gran numero, e assai pericolosi. » Il Monte di cui parla Odorico, è di certo il Picco d'Adamo, il Sam-a-lil degli indigeni, il Salmala in sanscrito, il Raun degli Arabi. Sulla vetta - 335 - di questo monte si vede impressa nella roccia l'orma di un piede gigantesco, che i Buddisti dicono essere l'impronta lasciata da Budda nella sua ultima incarnazione; e i mussulmani, quella di Adamo. Due viaggiatori Arabi del IX secolo, stando ad una traduzione francese, scrivevano: « Au delà de ces isles, dans la mer de Herkend, est Serendib ou Ceilan... Ori trouve plus avant dans les terres une montagne appelée Rahoun, sur la quelle ori croit qu'Adam est monté. » E nel poema indiano Ramaiava abbiamo: « Disse la principessa Seti Devi: O Anuman, va ascendi il monte Serendib, sulla cui vetta è una pietra candida, l'impronta del luogo dove Adamo smontò quando discese dal cielo. » La leggenda mussulmana vuole che Adamo, cacciato dal Paradiso, disgiunto da Eva e esiliato sul monte di Ceilan, vi durasse duecento anni a piangere il suo fallo, dopo i quali fu dall'angelo di Dio portato alla Mecca e riaccompagnato ad Eva. La spianata sulla vetta del monte, benchè descritta anche dal Marignolli, non è conforme alla verità; ma senza dubbio Odorico parla secondo che gli era stato riferito. II piccolo lago d'onde si estraggono le gemme, è ricordato anche da Ibn-Batuta, e oggi ancora presso il Picco d'Adamo si cavano pietre più che in niuna parte dell'isola. A' tempi d'Odorico le perle erano proprietà del re, che ne facea doni a suo talento. Devesi qui notare che il nostro Beato, prìmo tra gli occidentali, fa menzione delle sanguisughe che in verità infestano l'isola; e del rimedio che usavano quegli isolani trova il Yule una piena conferma nelle testimonianze concordì d'Ibn-Batuta, di Tennent e di Roberto Knox. L'uccello a due teste, di cui parla Odorico, è una specie d'uccello che ha il becco sormontato da una protuberanza che non si sa ancora a che serva; ma le sue brevi parole furono chiosate in modo strano dai posteriori viaggiatori. Ecco come lo descrive il Padre Vincenzio Maria: « Di molte maraviglie la natura dotò l'Oriente, ma quella che riconosco in un uccello a due becchi, non è a mio credere l'infima. Chiamasi di due becchi, perchè due ne possiede distintissimi, lunghi quasi un palmo, mediocremente larghi, uniti nella radice, divisi nella continuazione, l'uno steso in alto, l'altro piegato al basso, onde sembrano un compasso aperto... Il superiore è negro, l'inferiore è giallo: con il primo canta o crocita, con il secondo si pasce... Questo (il becco) tolto per sostanza è veleno; quello, medicinale. » Il Padre Paolino dice che dai Portoghesi è chiamato Passaro de duos bicos, che abita sui monti dove è scarsità d'acqua, e che il secondo becco gli serve come di serbatoio. Frate Odorico esprimendosi più semplicemente, si dilungò meno degli altri dal vero. (YULE, loc. cit.). - 335 -
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Dondin
Nome attuale: Filippine ???
Nome: Dondin
Relatio: Cap. XVIII
"De hac insula recedens et pergens versus meridiem, ad quandam magnam insulam applicui que vocatur Dondin, quod idem est quod “immundum”. In hac insula mali homines commorantur; nam ipsi carnes crudas comedunt, et omnem aliam immunditiam que iam dici posset."
"Partendo da questa isola e dirigendomi verso sud, sbarcai su di una grande isola chiamata Dondin, un nome che significa «immondo». In questa isola abitano uomini cattivi che mangiano carne cruda e ogni altra immondizia che si possa immaginare."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XVIII.
Domenichelli
Il quarantesimo Capitolo di Odorico è forse più degli altri oscuro e difficile a spiegarsi. Il nome stesso Dodyn, Dandin, non si rinviene nelle carte geografiche. Di Adou, una delle Maldive, e di Aoude, in sanscrito Ayodhia, regno sul continente asiatico, non occorre nemmen parlare, perchè nè la via tenuta da Odorico, nè i caratteri che riferisce, vi possono convenire. Il Padre Marcellino dice in genere, che sia una delle Filippine, oppure, ancor più indeterminatamente, un'isola dell'Oceano indiano; e così dev'essere; giacchè, di certo, trattasi di una di queste isole. Il De Backer suggerirebbe le isole Carimon, fondandosi sul testo francese di Giovanni Le Long, da cui risulterebbe che fosse un gruppo di ventiquattro isole, quante appunto sono le Carimon; ma gli altri codici più correttamente descrivono Dodyn come un'isola sola, aggiungendo che le isole tutte dell'India inferiore montano a ventiquattro mila. Il Yule trova qualche somiglianza di suono con Andiman (D'Andin), o con Achin, regno di Sumatra, chiamato Dagin dal Balbi; e questa ultima congettura era stata fatta prima dal Righini: potrebbe anche essere che si trattasse dell'isola di Celebe, a cui del resto era già approdato altra volta, come si è veduto: là infatti dalla parte d'Occidente è il capo Donda, che forse più d'ogni altro si avvicina per sinonimia al Dandin o Dodyn d'Odorico: ma, come ognun vede, non si esce dal campo delle ipotesi. Quanto ai costumi qui descritti, sono similissimi a quelli che del Dragojan descrive Marco Polo. « Allorchè uno di loro (egli dice), uomo o donna, ammala, i parenti mandano per i magi e li interrogano se il malato abbia o no a guarire: i magi lo sanno per loro incantesimi; e se dicono ch'egli ha da guarire, tanto lo lasciano finchè guarisca; se dicono che deve morire, chiamano degli uomini esperti nell'ammazzare i malati, a' quali gl'incantatori predissero la morte; e questì vengono al malato e gli mettono tante cose nella gola finchè lo soffocano: quando è morto, lo fanno cuocere. Vengono allora i parenti del morto e se lo mangiano tutto, perfino la midolla delle ossa, accio nulla resti di lui; perchè dicono che se alcuna sostanza ne rimanesse, farebbe vermi, che, consumato il corpo, morrebbero poscia per mancanza di cibo, e della morte di questi vermi l'anima del morto n'avrebbe gran peccato e danno. » (Mar. Polo, trad. del LAZARI.) Commentando questo racconto, il Lazari dice: « Costumi ferini non dissimili racconta Erodoto degli Issedoni. » Anche il Rienzi scrive che i Battak « usavano di mangiare i loro parenti, quando questi divenivano troppo vecchi »; e tale notizia è riferita anche dal Raffles, dal Balbi e dal Moor. Al Yule venne nar- - 336 - rato tal costume come proprio di alcune tribù al Nord-Est dell'Arakan, e nota che il Barbosa lo attribuisce ad alcune tribù dell'interno del Siam. Il numero che il Beato assegna alle isole tutte dell'India inferiore, è senza dubbio esagerato; ma egli le ricordò secondo che gliene era stato fatto rapporto; d'altra parte, neppur oggi v'è chi potesse darne il numero esatto. II Polo scrive, che il mare di Cin contiene, al dire dei pratici, settemila quattrocento e quarautotto isole; e non è dubbio che nel novero delle isole dell'India inferiore Odorico computava anche queste. Giunti al termine delle dilucidazioni di questi tre Capitoli, che sono, come avvertimmo, i più intricati del viaggio di Odorico, accenneremo qui le ragioni per le quali potrebbe tenersi come probabile, che il nostro Missionario approdasse anche al Giappone, o ad alcuna delle isole che gli stanno presso. Il tempo che stringe non ci ha consentito di farne una piena trattazione, come avremmo voluto. L'opinione che il Beato andasse al Giappone, non è nuova nella storia e nella spiegazione del suo Viaggio: il Liruti ed il Venni, scrittori di qualche autorità, la ricordano; benchè errino nel voler ravvisare il Zipango, ossia il Giappone del Polo, nel Zapa o Campa del Beato, che, come si è veduto, risponde senza dubbio al Ciampa o Bintuan dei moderni. Chi pertanto legga attentamente tutto il suo Viaggio, non potrà a meno di avvertire questo fatto singolare, che mentre il Beato, seguitando il suo cammino, dovea navigare il Màr della Cina, si trovano quivi accennate isole del mare delle Indie, e frammischiate insieme notizie che appartengono alle isole dei due mari. Come spiegheremo questo fatto al tutto nuovo e strano nella narrazione di Odorico? L'ipotesi ch' egli o il suo scrittore Frate Guglielmo abbiano inventato, oltrechè affatto contraria all'intemerato suo carattere e al carattere fin qui e in tutto il resto dimostrato dal Solagna, rimane radicalmente distrutta dal trovare che le descrizioni si confanno nelle singole parti ora a questa, ora a quella isola dei due mari, e dicono il vero. V'ha chi dice, che qui alla narrazione siansi aggiunte notizie tratte dal Polo: ma questa opinione non può sostenersi, riflettendo che la confusione rimonta all'originale di Frate Guglielmo da Solagna. Dunque delle isole dei due mari parlò veramente Odorico che dettava; e Frate Guglielmo da alcune somiglianze di nomi indotto in errore, di varie isole fece in modo strano una sola. E le sinonimie sono chiarissime. Confrontando Inzimezan con Scipeu cuo, nome cinese del Giappone; il nome Silan (l'isola di Cellan) col Sila, nome dato anch'esso al Giappone; ognun vede come fosse - 337 - facile lo scambiarli. E già vedemmo combinare perfettamente con quello che il Polo ha del Giappone il racconto che degli antropofagi di Nicobar o Nicouveran fa il Nostro. Il Palazzo d'oro e d'argento dell'isola di Giava, che difficilmente si troverebbe a quale isola dell'Arcipelago potesse convenire, è il medesimo che Marco Polo dice trovarsi nel Giappone. E il re che per forza d'armi seppe rintuzzare l'ambizione e l'ingordigia del potente Cublai, e che Odorico dice esser quello di Silan (Ceilan), la storia ci fa sapere che fu il re delle isole della Sila (Giappone). Oltre di ciò, non mancano codici, come il diligentissimo della Marciana pubblicato da noi, in cui si legge che Odorico navigò per molti giorni verso Ponente per andare in Cina; direzione assolutamente impossibile a concepirsi, a meno che non si supponga che partisse dalle isole più lontane del mar della Cina. Dunque il Beato fu veramente nel Giappone? Non diciamo questo; ma ci par che sia assai probabile: è un punto da volersi bene studiare da chi è molto versato in questo genere di ricerche. Così la confusione del Codice resta molto chiarita.
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Manzi
Nome attuale: Cina meridionale
Nome: Manzi o India Superiore
Relatio: Cap. XIX
"Ubi sciendum est quod, dum navigarem per mare occeanum versus orientem per multas dietas, ad illam nobilem provinciam Manci ego veni, quam Indiam vocamus superiorem. De hac India diligenter quesivi christianos, saracenos, idolatras omnesque officiales magni canis, qui omnes uno ore loquuntur et dicunt quod hec provincia Manci habet bene duo milia magnarum civitatum; que in tantum sunt magne ille civitates, quod neque Vincencia neque Tarvisium in earum numerum ponerentur."
"Si deve sapere che mentre navigavo sull’Oceano verso Oriente per molte giornate, arrivai alla nobile provincia di Manzi, che noi chiamiamo India superiore. Circa questa regione interrogai diligentemente cristiani, saraceni, idolatri e tutti gli ufficiali del Gran Khan, che tutti concordi dichiarano e affermano che questa provincia di Manzi ha sicuramente duemila grandi città, così grandi che, presso di loro, né Vicenza, né Treviso sarebbero considerate tali."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XIX.
Afferma che in questa regione ci sono grandi città con una grande moltitudine di gente, grandissima abbondanza di pane, di vino di riso, di carni, di pesci e di ogni genere di vettovaglie.
Oche (Anser Cygnoides)
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XLI.=====
- « L'India Superiore del nostro Beato è (dice il Padre Marcellino da Civezza) la moderna Cina meridionale. » Nell'India inferiore e; li adunque comprendeva l'Indostan, l'India Transgangetica, tutte le isole dell'Arcipelago Indiano, il Tonchino e la Cocincina, dandogli presso a poco gli stessi confini che il Lassen poneva all'India. Anche il Martini, che scriveva nel secolo XVII, nel suo « Atlas Sinensis, » chiama la Cina « India superior. » (YULE, loc. Cit.) La parola Manzi, secondo il Pauthier, è venuta dal vocabolo cinese Màn-tse (figli de' barbari); nome che i popoli più civili del Nord della Cina davano ai meridionali più rozzi. Il Lazari si avvicina di molto a questa interpretazione, dicendo: « Questo vocabolo è corruzione delle due voci chinesi Man-tse, barbari del mezzodì. La parte NordOvest dell'Impero centrale fu precisamente la culla della civiltà chinese; i popoli del mezzogiorno si risguardavano come barbari. Man-tse esprimeva all'epoca della dominazione mongola, il conquistato impero dei Song. » La stessa etimologia fa avvertire il Yule, essere stata indicata dal Klaproth e dal Davis. E poi manifesto errore, aggiunge il medesimo, l'opinione di alcuni che insegnano Manzi derivare dalla voce persiana ed araba « Machin o Masin », che sembra una contrazione del sanscritto « Maha-Chin (Magna China) »: nondimeno v'è ragion di credere che talvolta siansi confusi insieme questi due nomi; poichè in Rashideddin, e forse in altri scrittori arabi, la Cina Meridionale viene denominata Machin. - 338 - Circa la descrizione generale del Manzi fatta da Odorico, il Yule riporta le seguenti parole del Wassaf: « La China, oltre Khansai, possiede quattrocento città tutte più grandi di Bagdad e Shiraz. » Non avea adunque torto il nostro Beato a giudicare tutte queste città, maggiori di Treviso e di Vicenza. Il Pauthier (Chine Moderne) dà il seguente quadro statistico di tutta la Cina: Fu, cioè città sedi di prefetture 182 Chen, cioè città capo di circondari 134 Hien, cioè città capo di distretto 1281 Altre città minori 112 Totale 1709 Come ognun vede, la cifra è inferiore a quella di Odorico, benchè le città noverate dal Pauthier siano seminate in maggiore ampiezza di paese che quello compreso dal nostro Beato sotto il nome di Manzi. Egli per altro dettò secondo che gli era stato riferito. La Cina, come ognun sa, è popolatissima; e non è punto strano che in alcun luogo abbia per caso trovata maggior folla di gente che non alla festa dell'Ascensione a Venezia, a cui nel medioevo traevano genti da molti paesi. Anche il Davis dice, che nulla più colpisce di maraviglia il forestiere che entra in Cina, quanto lo spettacolo dell'affaccendarsi dei Cinesi, e delle loro industrie in ogni genere di arti. (YULE, loc. cit.) « La pallidezza degli abitanti, e la barba rada, ma lunga, degli uomini, simile ai baffi de' gatti, è (scrive il Padre Marcellino da Civezza) ritratto spiccato del viso de' Cinesi. » (Storia univ, delle Miss. Franc., vol. III, cap. XII.)
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Censcalan
Nome attuale: Canton / Quangzhou /
Nome: Censcalan
Relatio: Cap. XX
"Prima civitas huius provincie quam inveni vocatur Censcalan. Hec civitas bene magna est pro tribus Venetiis, distans a mari per unam dietam, posita super unum flumen, cuius aqua propter ipsum mare ascendit ultra terram bene duodecim dietis.."
"La prima città che incontrai in questa provincia fu Censcalan. Questa città è grande tre volte Venezia e dista dal mare circa una giornata di viaggio: è situata presso un fiume, la cui acqua risale dal mare entro la terraferma per dodici giornate di cammino.."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XX.
"In essa ci sono le oche più grandi e belle e di miglior aspetto che oggi ci siano nel mondo. Una delle loro oche è grande come due delle nostre e sono tutte bianche come il latte, hanno sulla testa un osso grande come un uovo e di colore del sangue. Sotto la gola, queste oche hanno una pelle che pende fino a metà collo. Sono oche molto pingui e una di esse, ben cotta e condita, si può comprare con un soldo. Quanto detto sulle oche, si può dire anche delle anatre e delle galline che sono così grosse da suscitare molta meraviglia."
"Qui ci sono anche i serpenti più grandi che esistano al mondo. Gli abitanti spesso li catturano e poi li mangiano come cibi prelibati, perciò sono considerati un piatto così solenne che, se qualcuno facesse un banchetto senza uno di questi serpenti, si direbbe che non faccia niente."
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XLII.=====
- Senstalay s'incontra scritto in modi diversissimi nei vari testi, e corrisponde a Canton, « come si fa chiaro (dice il Padre Marcellino da Civezza) dalla descrizione che ne rende il Beato. » È il Cynkalan del Marignolli, il Sinkalan di Ibn-Batuta, il Chinkalan del Rashideddin e del Wassaf. Che poi sia veramente il moderno Canton, o Kouang-toung, apparisce evidente dalle indicazioni di essere il primo porto della Cina a cui approdano gli Europei, del gran fiume che la bagna, dell'immenso naviglio che empie il suo porto. Inoltre Ibn-Batuta ricorda i grandi giunchi cinesi di Zaiton e Sinkalan, e altrove parla di Khansa, il cui porto doveva essere Khanfu: ora i tre porti del commercio indiano furono soltanto Zaiton, Canton e Khanfu; dunque il Sinkala del Batuta essendo distinto da Zaiton e Khanfu, è certamente Canton. Lo stesso Ibn-Batuta scrive - 339 - che Sinkalan è all'estremità dell'impero, e confinante con tribù selvagge; Rashideddin ne segna la posizione al Sud di Zaiton; la Carta Catalana pone Cincalan al luogo di Canton. Queste indicazioni de signano Canton con tanta evidenza, che non resta dubbio di sorta. Rispetto al nome, se si deve stare al nostro Marignolli, che lo spiega « Magna China », traduzione di « Maha-chin », sarebbe persiano. Rashin, infatti, ed Al Biruni chiamarono Canton « Maha-chin (Magna China) »; e tra gli Arabi era assai frequente il chiamare col nome dell'intera provincia la città che ne fosse il capoluogo. (YULE, loc. cit.) Perchè il lettore giudichi da per sè quanto esatte sieno le notizie che ce ne dà il nostro Beato, trascrivo qui alcuni tratti tolti dal Malte-Brun: « Kouang-tcheou, que nous appelons Canton,... est une des plus peuplées et des plus opulentes villes de la Chine... Elle est bàtie sur le bord de la rivière des Perles ou Choa-keeng (Tigri), à cent kilomètres de la mer ou du Hoo-mun (Bocca del Tigri). Les rivières et les canaux y sont très nombreux et très poissonneux; ils sont couverts d'une in nombrable variété de jonkes et de bateaux de toute espèce, qui don nent à cette ville, en venant de la mer, l'aspect le plus étrange et le plus animé:... Les faubourgs s'étendent principalement à l'ovest et au sud, et ils ne sont ni moins étendus ni moins peuplés que la ville mème... Outre ses faubourgs, Canton a encore une ville flottante composée de plus de 100,000 bateaux de toutes formes et dimensions, habités par 300,000 individus... Le rues de Canton sont au nombre de 600 environ:.., elles sont continuellement encombrées par une foule bìgarée et bruyante... Ou trouve dans cette ville les productions de toutes les parties de l'empire, et ori y importe les produits du monde entiere. » (Précis de la Geog.) Non si sa bene a che accennino le parole, che l'acque del fiume rimontano undici giornate verso terra. Il Yule dubita che si parli del riflusso del mare, oppure della grandezza del golfo in cui sbocca il Si-Kiang, ossia Choa-keeng. La gallina ricordata del nostro Beato, grande per due delle nostrali, di color bianco, con un osso rosso in capo e sotto la gola una pelle pendente, è l'Anser Cygnoides, o gallina di Guinea. Il « Nouveau Dictionnaire de l'Histoire Naturelle » (Paris 1817, tom. XXIII) lo descrive della grossezza quasi d'un cigno, con un tubercolo carnoso alla base del becco e una pelle come un sacchetto, pendente sotto la gola, l'uno e l'altra di colore rossastro. È da avvertire che alcune varietà di queste galline mancano della membrana sotto la gola; la qual cosa Trasse in errore alcuni commentatori, ai quali parve di non trovar in questo luogo esattissima la descrizione di Odorico.
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Zaiton
Nome attuale: Quanzhou
Nome: Zayton, Zaiton
Relatio: Cap. XXI
"De hac contrata recedens Indie et transiens per multas civitates et terras, veni ad quandam nobilem terram nomine Caytan, in qua fratres minores sunt et habent duo loca...
In hac civitate est magna copia omnium illorum que necessaria sunt humane vite; nam tres libre et octo uncie zucari illic habentur minori dimidio grosso. Hec civitas ita magna est, sicut bis esset Bononia."
"Partendo da questa regione dell’India e passando per molte città e paesi, giunsi a una nobile città che si chiama Zaiton, nella quale ci sono i frati minori che vi hanno due conventi. ...
In questa città c’è grande quantità di tutti quei beni che sono necessari per la vita umana: qui si possono comperare tre libbre e otto once di zucchero per meno di mezzo soldo veneziano. Questa città è grande come due volte Bologna."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXI.
Non identificabile ma probabilmente non lontano da Zhangzhou (Amoy). Odorico sbarca le ossa dei tre martiri di Tana
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XLIII.=====
- Questo enorme offidiano descritto dal nostro Beato, è il Boa (Mai-teu dei Cinesi), di cui il Ritter dà le seguenti notizie: « E comunissimo nella Cina meridionale, specialmente nell'Iun-nan; lungo da venticinque a trenta piedi, e grosso quattro: può inghiottire animali interi, come caprioli. La sua carne è riputata un boccone squisito; il fiele si usa in medicina; la pelle si adopera per tamburi e per farne vagine e altri oggetti. » Anche il Conti parlando del Manzi, fa menzione dei « serpenti spaventevoli, senza piedi e grossi com'un uomo e lunghi sei cubiti. Gli abitatori del paese (seguita egli) gli mangiano arrosto con mirabil gusto e gli tengono in gran reputazione. » Il Klaproth inoltre (come avverte il Yule) cita alcuni scrittori Cinesi che parlano di un grosso serpente chiamato « Nan-che », il quale vive nelle provincie della Cina meridionale; quest'animale (dicono essi) è molto ricercato per la squisitezza della sua carne. La città di Zaiton è ricordata da tutti i viaggiatori nella Cina fino al secolo decimoquarto; tra gli altri il Polo, l'Ibn-Batuta, il Conti, Frate Andrea da Perugia e Frate Giovanni de' Marignolli. « Fino all'epoca più recente (scrive il Lazari) contesero gli eruditi sulla posizione di quella famosa città marittima, che il Polo e i geografi arabi del medio-evo descrissero come uno de' primari scali del commercio orientale, e al cui porto popolato di mille navi tendevano le speranze e le prore del venturoso Colombo. Marsden ravvisava Zaiton nell'isola di Amoi, recentemente aperta al commercio inglese: altri commentatori in quella di Ciang-ceu-fu, in cui il Baldelli credeva scoprire la capitale della provincia di Fugui; altri finalmente nel porto di Canton. Ma Klaproth, a cui la conoscenza della lingua e della storia chinese spianù il cammino alle più difficili investigazioni, trova veritiera l'ipotesi di quelli che sostengono doversi ricercare la vagheggiata Zaiton nell'odierna Tsiuan-ceu, celebre porto della China Meridionale, nella provincia di Fu-chian, detto eziandio volgarmente Tseu-tung, che anche sotto la dominazione dei Ming era assai frequentato dagli Arabi, dai Persiani e dagli Indiani. Il nome di Tseu-tung ricordava le siepi di spinai (Tseu) e gli alberi che i naturalisti chiamano bignonia tomentosa, e i Cinesi tung, onde fu ricinta la città all'epoca della sua costruzione. Una singolare analogia di quel nome con quello che gli Arabi dànno all'oliva (zeitun) ne mutò in progresso di tempo la originaria forma ortografica nell'arabo nome del prezioso frutto che qui si riteneva allignare, benché sappiamo come la natura lo negasse ai fertili terreni dell'Asia orientale. Ibn-Batuta esprime la maraviglia onde fu compreso quando nella - 341 - città degli ulivi, el-zaitun, non vide fronda di quest'albero verdeggiare. » Da Zaiton partirono le spedizioni mongole contro Giava e contro il Giappone. Quando gli europei, che alla caduta della dinastia mongola in Cina erano stati costretti a interrompere le comunicazioni con quell'impero, vi fecero per la seconda volta ritorno, questo porto venne chiamato Cinceo. Non è da maravigliare del gran numero de' religiosi idolatri, che, secondo il Beato, vivevano in un monastero di Zaiton. Fahian ne trovò maggior moltitudine in un monastero di Ceylan, e più ancora l'abbate Huc nelle quasi inesplorate regioni del Tibet. In Pooto, nel principio dello scorso secolo, ne vivevano riuniti in un sol corpo da tre mila; ed anc'oggi, in tanto decadimento delle loro credenze, sommano a due mila: il Dutch poi nel 1655 trovò nel famoso tempio presso Nanchino dieci mila idoli. Il monastero di cui parla Odorico, è forse quello di Water-Lily, che fu edificato nell'ottavo secolo, ed è anc'oggi in buono stato. II Fortune così descrive il modo onde i Buddisti danno mangiare a' lor Dei: Nella sala migliore del palazzo apparecchiavano una gran tavola, e v'imbandivano le migliori vivande del paese... Si accendevano doppieri, ed in mezzo alla tavola si abbruciava l'incenso; colonne di fumo e odorosi profumi si spargevano nell'aria... Quando giudicavasi che i muti Dei avessero terminato di mangiare, toglievansi le vivande, che venivano divise tra il popolo e i sacerdoti. (YULE, loc. cit.) Il che combina esattamente con quanto ne dice il Nostro.
Sitografia
Wikipedia -
https://it.wikipedia.org/wiki/Diocesi_di_Zayton
Fuzo
Nome attuale: Fuzhou, costa orientale della Cina
Nome: Fuco
Relatio: Cap. XXII
"De hac contrata recedens, veni versus orientem ad quandam civitatem nomine Fuco, que bene circuit per triginta miliaria. In qua sunt maiores galli qui sunt in mundo; galline vero sunt albe ut nix, non habentes pennas sed solum lanam ut pecus. Hec civitas est multum pulchra, sita supra mare."
"Partendo da questo paese, andai verso Oriente e giunsi a una città di nome Fuco, che ha una cinta muraria di trenta miglia. In questa città ci sono i galli più grandi che ci siano al mondo e le galline sono bianche come la neve, e non hanno penne ma solo la lana come le pecore. Questa città è molto bella, situata sopra il mare."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXII.
Dopo essere partito da qui ha viaggiato per 18 giorni attraverso molte città prima di arrivare a una grande montagna. Su un lato della montagna tutti gli animali erano neri, dall'altra parte erano bianchi.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XLIV.=====
- La città di Sucho, Fuzo, Fuko, dei vari codici, è l'odierna Fu-ceu nel Fu-chian, che giace a breve distanza dal mare s'un braccio del Niao-tung-chiang (Ming.) Nel 1281 fu fatta capitale della provincia di Fu-chian, e tale si mantenne, fra tante vicende, sino a' dì nostri. Non è propriamente sul mare, ma, come si è detto, gli è molto vicina, e per mezzo del fiume ha i vantaggi di un porto; e questa è la ragione per la quale il Beato potè dirla situata alle rive del mare. La gallina qui da esso descritta, è conosciuta dai naturalisti sotto il nome di Fhasianus lanatus, Gallus lanatus. Il Kircher, seguendo il Martini, la descrive così: É una gallina vestita di un pelo come di pecora; di piccola mole, di gambe corte, coraggiosa di molto, e carezzata dalle donne. Marco Polo dice, che sono a nere, senza penne, ma tutte coperte di pelo simile a quello de' gatti. » (YULE, note.) Il Pagnozzi usa quasi le parole del nostro Beato, scrivendo: « La gallina del Set-siuen, invece di penne, è vestita di lana fìnissima, come un agnellino di latte. » - 342
=====Illustrazioni al Capo XLV.=====
- II gran monte in cui s'incontrò Odorico « è di certo (scrive il Padre Marcellino da Civezza) il Tu-iu-liang, che divide la provincia di Kiang-si dal Fo-kien. In quanto agli uomini negri (di cui è parola in alcuni codici), ci potrebbero riputarsi progenie dei barbari di Mantse, ossia del Mangi. » (Storia univ. delle Miss. Franc., loc. cit.) La stessa sentenza tenne l'Yule, che opina essere state valicate queste montagne dal Beato verso il Nord in Che-chiang, oppure all'Ovest in Kiangs. I Mantse, nei quali il Beato s'avvenne, al presente non si estendono fino a questa regione; ma è probabile che allora vi dimorassero. Infatti il Polo vide uomini tatuati in Fo-kien, che dovean essere Mantse. Anche nella moderna statistica Cinese viene indicato un distretto di Canton sotto il nome di Nero: e il Semedo nel 1632 trovava tribù barbare e selvagge cbe abitavano le montagne tra Fokien, Canton e Kiang-si. Il vestire e i costumi di questi selvaggi fanno uno strano contrasto con quelli de' Cinesi limitrofi. La bizzarra acconciatura del capo che, secondo il Duhalde, usano le donne Mantse, somiglia in parte a quanto ne dice il Beato. Elleno portano in testa, fermato con cera, un asse lungo un piede, e largo cinque o sei pollici, che coprono coi loro capelli. Hiwen-Thsang ci fa sapere che le maritate d'Himatala, distretto del Badakhshan superiore, portano come distintivo un corno alto tre piedi. (YULE, note e giunte alle note.)
Sitografia
Wikipedia -
https://it.wikipedia.org/wiki/Fuzhou
Belsa ???
Nome attuale: Sconosciuto
Nome:Belsa
Relatio: Cap. XXII
"Hinc transiens per decem et octo dietas per multas civitates et terras et veniens ad unum magnum flumen, applicui ad unam magnam civitatem, que per transversum istud flumen habet unum pontem, in cuius capite in domo cuiusdam hospitis habui hospitari. Qui, michi volens complacere, dixit: «Si tu vis videre piscari, veni mecum». Et sic me duxit super istum pontem, in quo dum essem aspexi et vidi in illis suis barcis mergos super perticas alligatos; quos postea homo ille uno filo ligavit ad gulam, 185ne illi pisces capientes illos comedere possent. Unde in una barca posuit tres magnas cistas: unam ab uno capite navis, aliam ab alio, tertiam vero in medio. Dum autem hoc sic fecisset, dissoluit illos mergos, qui se postea in aquam submergebant; et sic pisces quam plurimos capiebant, quos ipsimet postea in illis cistis ponebant, ita quod in parva hora omnes ille ciste fuerunt plene. Dum autem essent plene, a collo eorum filum illud accipiebat et eos in aquam se submergere permittebat, ut inde pisces pascerentur; cum autem pasti sunt, ad loca propria revertuntur, et eos ibi ligavit sicut prius ligati fuerant. Ego autem de illis piscibus manducavi."
"Partendo da qui, compiendo altre diciotto giornate di cammino, vidi molte città e regioni e giunsi a un grande fiume, presso il quale c’è una grande città. Su questo fiume è costruito un ponte, in capo al quale c’è una casa in cui trovai ospitalità. E colui che mi ospitava, volendo farmi un piacere, mi disse: «Se vuoi vedere come si pescano i pesci, vieni con me». E così mi condusse sopra questo ponte, e mentre ero là sopra guardai e vidi che nelle barche avevano dei cormorani legati a delle pertiche. Poi quell’uomo legò un filo sulla gola dei cormorani in modo che non potessero mangiare i pesci che catturavano. A tale scopo in una barca depose tre grandi ceste: una a poppa, l’altra a prua e la terza a metà barca. Dopo aver fatto questo, sciolse i cormorani, che poi si immersero nell’acqua e così prendevano moltissimi pesci, che essi stessi deponevano poi nelle ceste, tanto che in breve tempo tutte quelle ceste furono riempite. Allora quell’uomo sciolse il legame che aveva posto sul collo dei cormorani e li lasciò liberi di immergersi nel fiume e di nutrirsi con i pesci che prendevano. Una volta pasciuti, i cormorani tornavano al loro posto e il padrone li legava com’erano prima. Anch’io ho mangiato di quei pesci."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXII.
Dopo aver viaggiato per altri 18 giorni, si imbatté in una città chiamata Belsa su un grande fiume.
Il fiume potrebbe essere il fiume Fuchun Jiang. Qui è stato invitato da un uomo a vedere una grande pesca. Fu condotto a una barca con alcuni uccelli legati. L'uomo posò tre canestri, liberò gli uccelli che pescarono e riempirono i cesti. L'uomo poi ha lasciato che gli uccelli ne prendessero altri da soli prima di legarli di nuovo.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XLVI.=====
- Crede il Yule che sia molto difficile, e forse impossibile, indicare la città nella quale il Beato vide pescare. Se il nome « Belsa », dato dal Ramusio, non è inventato, forse corrisponde a Wen-chu nel Che-Kiang. Ma è questa una pura ipotesi. Da gran tempo s'usò, e s'usa ancora, di pescare coi cormorani. Il Duhalde, lo Staunton, il Mendoza, il Martini, il Davis, il Fortune, Frate Ripa ed altri molti ne parlano. Il Fortune aggiunge che il cormorano è docile come un cagnolino; tuffasi nell'acqua a pescare, e poi si lascia agevolmente ritogliere dal padrone la preda, e ricomincia il lavoro; e, ciò che è ancor più maraviglioso, se uno di essi gettatosi sopra un pesce troppo grosso non vale a portarlo nella barca, i compagni accorrono ad aiutarlo. Il Fortune ne tolse uno, con intendimento di portarlo seco in Inghilterra, ma gli morì per via. In Cina costano sei o sette dollari il paio. I naturalisti lo chiamano « Fhalacrocorax Siaensis », diverso dall'inglese « Fhalacrocorax Garbo. » Il signor Swinhoe sostiene che queste due specie di cormorani non siano che una varietà di una specie primitiva. Anche il cormorano inglese venne tempi addietro adoperato per la pesca nell'Inghilterra e in Olanda. Carlo II avea un guardiano di cormorani. (YULE, note.) - 343 - Nelle storie naturali si trova indicato come appartenente ai Palmipedi, con penne nere o brune al di sopra, e sotto di colore che piega al verdastro. Pare sempre tristo, ma tranquillo; abita a stormi le rive de' fiumi e le rive scogliose dei mari. (BELÈZE, Storia natur.) La Versione minore del Ramusio ha qui una strana variante. Il Yule sospetta che qualche copista, ignorando che il cormorano potea servire alla pesca, non sapesse indursi a prestar fede al racconto; e pensò meglio di sostituire all'uccello un pesce, non accorgendosi che così lacca dire al Beato una cosa veramente inaudita, e, almeno fin qui, impossibile.
=====Illustrazioni al Capo XLVII.=====
- Su per giù, la stessa cosa si legge nei viaggi di Fortune. Ecco le sue parole: L'uomo pigliapesci è proprio un anfibio; va tutto nudo, or camminando, or nuotando; talvolta alza le braccia e appoggia sulla testa le mani; talvolta le abbassa, e percotendo con forza l'acqua, produce un cupo rumore. Anche i piedi gli servono; questi l'avvertono che un pesce è alla sua portata; e nel fondo melmoso del lago gli fanno l'ufficio d'indicatori. Di un tratto il piglia-pesci scompare sotto l'acqua,... e dopo un poco ricomparisce tergendosi coll'una mano gli occhi ed il viso, e nell'altra tenendo il pesce ch'egli ha saputo afferrare. Il pesce vien tosto tiettato in barca, e così si continua la pesca. (YULE, note.)
Sitografia
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Cansaye
Nome attuale: Hangzhou
Nome: Cansaye, Cansay
Relatio: Cap. XXIII
"Hinc recedens, veni ad unam civitatem nomine Cansaye, quod idem est quod “civitas celi”. Hec civitas maior est aliqua alia que hodie sit in mundo: circuit enim bene centum miliaria. In ipsa enim non est spansa terre que non bene habitetur, immo multotiens erat aliqua domus que bene decem vel duodecim superlectiles in se habebat. Hec civitas etiam habet burgia magna valde habentia maiorem gentem quam ipsa civitas habeat. Hec duodecim portas habet principales, et prope quamlibet illarum portarum forte ad octo miliaria sunt civitates maiores quam esset civitas Venetiarum et Padue; unde bene ibitur sex vel septem dietis per unum illorum burgorum et tamen videbitur modicum permeasse.
Hec civitas posita est in aquis lacunarum, que manet et stat ut civitas Venetiarum; ipsa etiam habet plures quam duodecim milia pontium, in quorum quolibet morantur custodie, custodientes hanc civitatem pro magno cane. A latere huius civitatis labitur unum flumen, iuxta quod sita est civitas hec, sicut Ferraria ipsa manet iuxta Padum. Nam longior est quam lata. De ipsa autem diligenter inquisivi a christianis, saracenis, idolatris cunctisque aliis, qui omnes uno ore loquuntur dicentes quod bene centum miliaria circuit."
"Partendo da questo luogo, arrivai in una città chiamata Cansaye, che significa «città del cielo». Questa città è la più grande che ci sia al mondo, e ha una cerchia muraria di ben cento miglia. In essa non c’è una spanna di terra che non sia abitata, anzi molto spesso c’era qualche casa in cui abitavano dieci o dodici famiglie. Questa città ha anche grandi borghi dove abita un numero di persone più grande rispetto a quelle che stanno dentro la città. Questa ha dodici porte principali e nei pressi di ognuna di esse, a distanza circa di otto miglia, ci sono altre città più grandi di Venezia e di Padova. Così si può andare per sei o sette giornate di cammino attraverso uno di questi borghi e tuttavia sembra di averne visto solo una piccola parte.
Questa città è situata sulle acque di una laguna ed è solida e costruita come Venezia: in essa ci sono più di dodicimila ponti e su ognuno di essi ci sono guardie che li custodiscono e proteggono questa città per il Gran Khan della Cina. A fianco di questa città scorre un fiume, e la città è costruita lungo il fiume come Ferrara, che è sorta e sta presso il fiume Po. Infatti è più lunga che larga. Su di essa ho chiesto informazioni diligenti sia ai cristiani che ai saraceni, agli idolatri e a tutti gli altri, i quali dicono tutti unanimi che ha un circuito di cento miglia."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXIII.
Hangzhou. Odorico la descrive come la più grande città sulla terra.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XLVIII.=====
- Ahamsane, Cansana, Chansai, è il Quinsai di Marco Polo, il Kingsai di Rashideddin, la Cansa d'Ibn Batuta, il moderno Ang-ceu-fu. In origine ebbe nome Ang-ceu (città delle barche); al tempo dei Song, Liungan-fu; sotto gli luen, Angceu-lu; e finalmente sotto la dinastia indigena, Ang-ceu-fu, titolo che tuttora conserva. Quando i Song, respinti dai Niu-ce nelle parti meridionali, vi trasferirono la regia residenza, la città prese presso il volgo il titolo di Ching-see (sede del governo); nome che oggi ha Pekino. Fu capitale dell'impero dal 1127, o dal 1232, secondo altri, fino al 1279. I Cinesi, Frate Giovanni de' Marignolli, Pegolotti, ed altri autori la chiamarono col nome volgare Ching-see; e si trova così chiamata anche molto tempo dopo che cessò di esser metropoli: infatti anche dal Carletti nel 1595 nell' « Atlas Chinese » è trascritta col nome di Camse, manifesta corruzione di Ching-see. Anche il Polo asserì che quel nome suonava « Città del cielo »; e tale forse era, suggerisce il Yule, l'opinione corrente allora tra gli occidentali, derivata dalla torta interpretazione del proverbio cinese, di cui fa menzione il Duhalde, il Davis, il Klaproth, il Baldelli e il Neumann, nel quale si pone a confronto il cielo con Sucheu e Ang-ceu. I dodici mila ponti di pietra, gli ottantanove thuman di fuochi parvero ad alcuni cifre che passano il limite del verosimile. - 344 - « Ma riflettiamo d'altronde (nota il Lazari) che Ang-ceu era stata pochi anni prima la residenza degli imperatori del più incivilito stato del mondo, che il suo splendore e la sua ricchezza avevano toccato il massimo apice, e che fruiva dei benefizi di un commercio attivo estesissimo, non impedito dal rovinoso sistema chinese d'isolamento; ee che anche oggidì, quantunque dall'antica condizione assai decaduta, rivaleggia colla capitale dell'impero. » (Mar. Polo, LAZARI.) Anche il Polo fa menzione dei dodici mila ponti, e dà alla terra una popolazione superiore a quella datagli dal Beato: e al Polo si può aggiungere il Batuta, che dice quasi lo stesso. Il Wassaf, storico persiano, la descrive così: Khanzai, la più grande città della Cina, ha di circuito ventiquattro farsang. Le case sono di legno, ricche di bellissimi quadri. Dall'una all'altra estremità sono frapposte tre stazioni di posta. Le strade, la più parte, si prolungano per tre farsang: ha sessantaquattro piazze contornate di case a simmetria. Quanti siano gli artieri si può argomentare da questo, che i tintori soltanto sommano a trentamila; di settantamila uomini si compone il presidio; le famiglie sottoposte al tributo, montano a settecentomila; è intersecata di canali, su cui galleggiano un'infinità di navigli e cavalcati da trecento sessanta ponti; ed ha un settecento tempii e monasteri a un bel circa. Sempre è affollata di mercatanti e forestieri. Tale è la capitale. (D'OHSSON, Hist. dei Mongols, II.) La città è presso le rive (dice il Padre Marcellino da Civezza) di un lago di incantevol bellezza; da altri due lati è bagnata dal canale imperiale e dal Tsjen-tang-kiang; e l'interno di essa è tutto serpeggiato da numerosi canali alimentati dalle acque dei fiumi e dei laghi, che la fanno somigliare a Venezia. » I fuochi di cui parla il Beato, sono voce tecnica in Cinese. È letterale traduzione di Yen-hu (fuochi di casa); ed è conforme l'uso che si è mantenuto fino ad oggi, di contare in separato i fuochi dei Musulmani. Thouman, da non scambiarsi col tuman (tenebre), in lingua mongola significa veramente diecimila:, è voce derivata dal persiano che indicava una somma equivalente a diecimila mithkals. Il Balis era parola in uso in quelle parti. Il Pegolotti scrive « Balisci » ; Ibn Batuta « Balisht », plur. Bawalisht. Budger pensa che tal voce derivi dall'arabo fals, pronunziato fils, moneta in corso in Oriente; secondo l'autore del Kamus significa anche « sigillo impressa charta in collum pendens, quo esse tributarium significabatur ». Era moneta di vario valore, secondo che si trattava di un balis d'oro o d'argento o di carta. (YULE, note.) La carta moneta era certamente in uso presso i Cinesi, e dicevasi Chao. Fino dal 807 l'imperatore Iun-tsung emise cedole monetate; nel 960 furon posti in circolazione biglietti di banca dal 997 - 345 - al 1022 giravano assegnati, chino-tsu, di privati banchieri; fallita questa privata società, l'imperatore attribuì a sè solo il diritto di far carta monetata: nel 1068 venner fuori tante carte false che le screditarono; una banca di ammortizzazione ne rialzò il credito; ma poi, non ostante le premure dei Ming, gl'iterati fallimenti, verso il secolo XV le fecero scomparire per sempre. (KTAPROTH, Sur l'orig. dia papier-monnaie, Journal Asiat. 1, 257.) La popolazione che il Beato assegna a questa città, è superiore al vero; ma conviene ricordarsi che parla secondo che gli era stato riferito; ed è noto, come abbiamo ripetutamente avvertito, quanto gli orientali sien facili ad esagerare. Il liquore bigini, detto vino dal Beato, dev'essere, secondo il Yule, il « Darassun » dei Mongoli, la « Terracina » di Rubrouck; era ottenuto dalla distillazione del riso. Il Pigafetta, parlando di Borneo, fa menzione di questo medesimo vino dicendo: « Il loro vino di riso è chiaro come l'acqua; ma sì forte, che molti de' nostri s' ubbriacarono. Essi lo chiamano Arac ». Ysbrandt Ides, citato dall'Yule, avverte che questo vino, invecchiando, acquista la forza, il colore e il sapore dei nostri vini; e molti altri viaggiatori io paragonano ai migliori vini d'Europa. Il nome di bigini crede l'Yule che venga dal persiano « bagni » (birra o altra simil bevanda), congetturando che così la potessero chiamare gli Alani convertiti da Frate Giovanni da Montecorvino. Infatti, anche tra i popoli del Caucaso viene adoperata la parola « bagni » ad indicare la birra. Circa la visita del Beato al monastero dei Bonzi, poche cose sono a notare. Sembra che i Cinesi di quel tempo si dimostrassero cortesissimi a' forestieri, come si rileva dalle relazioni di tutti i viaggiatori d'allora, e che solo le gravi sventure che colpirono quel reame, gli rendessero così salvatici e infesti agli stranieri come sono al presente. Il monastero visitato da Odorico, crede il Yule che sia quello che si erge in un'isola del lago Sihu, di cui parlano il Polo, il Martini e Alvaro Semedo. Il Malte-Brun, parlando di questa città, rammenta la famosa pagoda di Sing-tse tse, uffiziata da trecento Bonzi, e adorna da più di cinquecento idoli in bronzo. L'Atha, o Ara, Archa, a cui il Beato dà la significazione di Padre, ha veramente questo significato in lingua araba, e secondo Ibn-Batuta, questo titolo solevasi dare in Quinsai ai più avanzati in età. Nell'idioma Tangutano si usa la voce Aka come titolo di rispetto, equivalente al nostro « Signore. » Come è noto, i Bonzi credono nella metempsicosi, e a tale cre- - 346 - denza si riferisce il racconto di Odorico. Questa falsa opinione si sparse largamente nell'Asia, ed ampiamente regnò e regna nell'Indiae da questa venne quello scrupolo del mangiar carne d'animali, e le cure verso di questi prodigate, di cui parlano generalmente i viaggiatori. Pur nondimeno il numero di tremila animali raccolti in un solo monastero pare troppo grande; ma non impossibile: pur non è da credere che il Beato li contasse.
Sitografia
Wikipedia - Hangzhou
Wikipedia - Monastero di Lingyin
Chilenfo
Nome attuale: Nanjing o Nanchino.
Nome: Chilenfo, Chilenfu
Relatio: Cap. XXIV
"De hac recedens per sex dietas veni ad unam aliam civitatem magnam nomine Chilenfo. Huius civitatis muri bene per quadraginta miliaria se extendunt. In hac civitate sunt bene trecenti et sexaginta pontes lapidei pulchriores quam habeat totus mundus. In hac etiam civitate fuit prima sedes regis Manci, in qua ipse morari solebat. Hec etiam bene habitatur a gente, et in ea est ita magnum navigium, quod est valde mirabile. Ipsa etiam bene sita est, omniumque bonorum copiam habet."
"Partendo da questa città, dopo aver viaggiato per sei giornate, giunsi a un’altra grande città, di nome Chilenfo. Le mura di questa città si estendono per più di quaranta miglia. In questa città ci sono trecentosessanta ponti di pietra e sono i più belli che ci siano al mondo. In questa città pose la sua prima residenza anche il re del Manzi. È una città abitata da buona gente e in essa si trova una nave meravigliosa. La città è situata in una buona posizione e ha grande abbondanza di tutti i beni."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXIV.
Sede di circa 360 ponti in pietra, "più belli di quanto il mondo intero possa mostrare"
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo XLIX.=====
- La città di Chilefo, Chilenfu, Chilemphe, Chilopho, dei vari codici, è di certo il moderno Nanchino, come tengono il Padre Marcellino da Civezza, il Kunstmam e il Yule: basta ricordare che fu già sede dei Song. Questa città, infatti, fu antica capitale dell'impero sotto le prime dinastie; e sotto i Ming, poco dopo la visita di Frate Odorico, raggiunse il massimo splendore; tanto che ad alcuni parve, per errore, che da questo tempo datasse la sua fondazione. La città è sul fiume Yang-tseu-kiang, e come la precedente, tutta intersecata di canali, laonde non è da dubitare che abbia molti ponti. E sebbene, come osserva il Yule, nella pianta che di Nanchino ci ha data il Duhalde, non si veggano nè canali, nè ponti; pure il Martini ci attesta che la città avea magnifici ponti che ne cavalcavano i canali, in maggior numero della stessa Sucheu. Il giro delle sue mura è al presente di venti miglia; ma si vedono ancora le tracce dell'antica cinta assai più estesa: computando i sobborghi, si avrebbe anch'oggi a un bel circa la misura di Odorico. Il Le Comte le assegna quarantotto miglia di circuito; trentasei, Gemello Carreri; e altri, quaranta come il nostro Beato. (YULE, loc. cit. ) Non è da confondere questo Chelinfu col Quenlifu, Quelinfu di Marco Polo, che per concorde sentenza dei commentatori è il Chienning-fu sul Miti, descritta dal Martini con brillanti colori, magnificandone anche i ponti. Questa si trova nel Fu-chian, troppo fuor di mano dalla presente direzione del nostro Viaggiatore. Devesi inoltre avvertire che Nanchino è un semplice soprannome, che significa Corte meridionale; titolo datogli quando era capitale dell'impero, e per simile ragione dato ad altre città. Il vero nome di Nanchino è, secondo il Yule, Chian-ning fu, che, come è chiaro, si avvicina al Kin-ling-fu; e così, secondo il Demailla, si chiamava in antico. Chilenfu, è forse così pronunziato da quelli di tal provincia, sostituendo al ming il ling, a quel modo che i Portoghesi pronunziando al modo degli abitanti del Fu-chian, chiamavano Nanchino, Lanchino, e Ningpo, Liampo. Anche l'Hakluyt chiama Chelim la provincia di Nanchino.
Sitografia
Wikipedia -
Fiume Talay
Nome attuale: probabilmente Yang Tze Chiang
Nome: Talay
Relatio: Cap. XXIV
"Ab hac recedens, veni ad quoddam flumen magnum nomine Talay et est maius flumen quod sit in toto mundo: nam ubi strictius est, bene est latum septem miliaribus."
"Partendo da questa città, giunsi fino a un grande fiume chiamato Talay, che è il fiume più grande esistente nel mondo. Infatti nel punto più stretto è largo ben sette miglia."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXIV.
Dopo aver lasciato Nanjing, Odorico ha attraversato il fiume chiamato Talay ed è probabilmente lo Yang Tze Chiang. Lo descrive come 7 miglia di diametro e lo descrive come "il più grande fiume del mondo"
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo L.=====
- Il Talay, Dataly, Tanay, opina il Padre Marcellino da Civezza che sia il Kiang. Se il vocabolo Tanay è il Talas mongolo, significante pianura, sonerebbe fiume scorrente per piani, Talas-Kiang; se è omonimo di Etil, Atal sarebbe una traduzione del cinese Kiang. » (Stor. univ. delle Miss. Franc.) Il Yule avverte essere errore di copista la sostituzione di Tanay, che hanno alcuni colici, alla voce Talay, che deve essere la usata da Odorico. Questo fiume (seguita il medesimo commentatore) è il Takiang o Yangtse, ossia il Chiang. Frate Odorico è il primo dei suoi tempi, che gli dia questo nome; che è il mongolo « Dalay », o mare, col quale i Mongoli designavano il Kiang. Il fiume era chiamato mare per la sua sterminata larghezza (ventotto chilometri alla foce), a quel modo che i Tibetani chiamano Samandrang (da Samudra, Oceano) l'Indo, e gli Arabi Bahr (mare) il Nilo. Il confuso racconto che ha il Capitolo cinquantesimo del nostro codice latino, intromessovi non sappiamo come, di colui che segnò i confini tra l'Europa e l'Asia, mancando in tutti gli altri codici, apparisce manifesta interpolazione; e noi ce ne passiamo. Intorno al racconto dei pigmei o biduini, Odorico ci fa sapere, stando ai codici meglio accreditati, ch'egli riferisce le voci che correvano a suo tempo, non quel che vide. Ci basterà adunque notare, che queste novelle erano allora vive nell'opinione e nella voce universale. Di fatti, anche nella Carta Catalana del 1375 si trovano descritti i pigmei come abitanti dell'Imalaju: vi si dice che sono alti cinque palmi e vi sono disegnati in atto di combattere con le grue: e alcuni viaggiatori arabi dicono, che erano abitati dai pigmei alcuni monti della Cina, nel paese di Tay. La favola dei pigmei fu per lungo tempo in gran credito. Paolo Giovio poneva uomini di straordinaria piccolezza nel Giappone; Pigafetta Delle Molucche; Olaus Magnus nella Groenlandia; il De Rienzi nell'isola di Sumatra e nelle Filippine; e così di seguito. A che corrisponda il Catan di Odorìco, non si può dire con certezza. Il Yule suggerisce il Khotes; pure nota che le grandi manifatture di cotone, di cui parla il Beato, sembrerebbero accennare alla provincia di Chiang-nan.
Sitografia
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Chacam
Nome attuale: Zhenjiang / Chen-chiang ???
Nome: Chacam, Cahan
Relatio: Cap. XXIV
"Hoc flumen per mediam terram Pigmeorum transit, idest Biduinorum, quorum civitas vocatur Chacam, que est de maioribus et pulchrioribus civitatibus que sunt in mundo. Hii Pigmei sunt longi tribus spansis, qui faciunt maiora opera goton, idest bombicis, quam aliqui homines qui hodie sunt in mundo. Homines autem magni qui ibi sunt filios generant, qui quasi plus pro dimidietate similes illis Pigmeis sunt, qui sunt ita parvi; quamobrem tot istorum Pigmeorum ibi generantur et nascuntur, quod sunt quasi sine numero."
"Questo fiume attraversa la regione dei pigmei, cioè dei beduini, la cui città si chiama Chacam, che è tra le più grandi e belle città del mondo. Questi pigmei sono alti tre spanne e producono cotone dai bozzoli dei bachi da seta, in quantità maggiore che ogni altra parte del mondo. Gli uomini grandi che ci sono tra loro generano figli che sono grandi più della metà rispetto ai pigmei, che sono tanto piccoli. Per questo vengono generati e nascono qui così tanti pigmei che il loro numero non si può contare."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXIV.
Questo fiume attraversa la regione dei pigmei.
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Iancu
Nome attuale: Yangzhou
Nome: Iancu, Iamzai
Relatio: Cap. XXV
"Dum sic per istud flumen Talay transirem, per multas civitates veni ad unam civitatem nomine Iancu, in qua est unus locus fratrum minorum; in hac etiam sunt tres ecclesie nestorinorum, idest virorum religiosorum."
"Dopo aver attraversato questo fiume Talay, passando per molte altre città, giunsi a una di queste di nome Iancu, in cui c’è un convento dei frati minori e ci sono anche tre chiese dei nestoriani, che sono anch’essi uomini religiosi."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXV.
La moderna Yangzhou dove Marco Polo è stato governatore per tre anni.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo LI.=====
- Questo Iancy, Ianzai, Iantu, è dicerto l'Iangui del Polo, l'Iangio della Carta Catalana, l'Iamceu di Triganzio, l'Iangse di Nieuhof, l'Yamsè di Mantano, e forse l'Yaneka o Yanku degli Arabi (YULE, note.) Il Lazari, il Padre Marcellino da Civezza, e il Yule dicono che sia la moderna Iang-ceu-fu. Iang-ceu-fu, infatti, esercita il più attivo traffico di merci e di sale; e anche il Martini parla delle grandi somme che specialmente in sale ne riscuoteva l'imperatore. Pauthier racconta che nel 1753 la rendita del sale ascese a L. 1,779,372. La popolazione, secondo moderni scrittori, è di 200,000 uomini; secondo il Padre Bouvet, 2,000,000; in entrambe le ipotesi sarebbe grande città. In antico avea sotto di sè tutte le terre del Chiang-nan, parte del Ho nan, e Chiang-si. Il Polo la governò per tre anni. E situata presso il canale nord del Chiang e precisamente a' gradi 320 26, 32` di latitudine Nord, e 2°, 55', 43" longitudine Est da Pechino. Quanto alla rendita di sale che annualmente ne ricavava l'Imperatore, nei codici varia da cinquanta thuman di balis a cinquantamila; tutti quelli però che parlano della condonazione, la ristringono a duecento thuman. Onde al Yule pare miglior lezione quella che segna cinquecento thuman di rendita.
Sitografia
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Per decem miliaria ab hac civitate in capite fluminis Talay est quedam alia civitas nomine Mencu. Hec civitas maius navigium habet et pulchrius quam aliqua civitas que hodie sit in mundo; omnes naves ille albe sunt velut nix, gesso depicte. In ipsis etiam pulchra hospitia multaque 195alia bene ordinata habentur sicut umquam in mundo esse possent, unde est quasi incredibile audire et videre huius navigii magnitudinem.
Dieci miglia a nord di questa città, alla sorgente del fiume Talay, c’è un’altra città di nome Mencu. È una città che ha una grande quantità di navi, più belle e più grandi di quante ce ne siano oggi nel mondo. Tutte le navi sono bianche come la neve, imbiancate con il gesso. In esse ci sono molte e belle sale per gli ospiti e tante altre cose bene ordinate, come mai meglio si potrebbe. Per questo è quasi incredibile sentir raccontare e vedere quanto grandi siano queste navi.
Lencin
Nome attuale: Linqing
Nome: Lencin, Lenzin
Relatio: Cap. XXV
"Ab hac recedens et transiens per octo dietas per multas civitates et terras, per aquam dulcem veni ad quandam civitatem nomine Lencin. Hec civitas posita est super unum flumen quod vocatur Caramoram; hoc flumen per medium Cathay transit, cui magnum damnum infert quando rumpit, sicut est Padus transiens per Ferrariam."
"Partendo da questa città e viaggiando per otto giornate, incontrai molte città e paesi, e navigando in acqua dolce giunsi a una città di nome Lencin. Questa città è situata presso un fiume che si chiama Caramoram: questo fiume scorre attraverso il Catai, e reca grandi danni alla gente quando rompe gli argini, come fa il Po a Ferrara."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXV.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo LIII.=====
- Lencui è, secondo il Padre Marcellino da Civezza e il Yule, il Lingui del Polo, il Lingegam di Nieuhof, il Ling-cing dei moderni. Questa città si trova indicata (scrive il Lazari) anche nelle carte di Arrowsmith e di Berghaus sotto il nome di Liticing-ian. Ma non è sul Caramoran, come dice Odorico; siede invece sul Yu-ho (fiume de' trasporti) o Canale Imperiale, che riunisce il Vei-o all'Hoang-ho. Evidentemente il Beato ha scambiato il canale col fiume stesso, o con un suo ramo. Nota il Yule, che anche nella Geografia cinese citata dal Pauthier, viene chiamato fiume Yu-ngang-ho il canale che pone in comunicazione tra loro i fiumi Yho, Wen-ho, Wei-ho, Chang-ho e Tien. I molti canali artificiali della Cina, che ne riuniscono quasi tutte le città principali, e tra gli altri il gigantesco Yun-ho, a cui il Wen-ho reca il maggior tributo di acque, congiungendo le provincie del centro e del mezzodì con Pechino, e annodando il sistema idrografico del Pe-che-li coi due più grandi fiumi della Cina, rendeva possibile, anzi facile al Beato compiere in acqua dolce il cammino da Chin-chian fu a Ling-cing. Questo canale venne fatto scavare da Cublai. Rashideddin, scriveva: I Geometri del Cataio dissero possibile far giungere a Can-ba-lig le navi della città di Ching-sai, Zeitun, del Cataio, e della capitale di Ma-cin. Il Caan allora ordinò un canale, a cui recano le acque il fiume di Canba-lig, un affluente del Caramoran ed altri. È tutto navigabile, ed ha una lunghezza di quaranta giornate. Sul Caramoran scrive il Lazari quanto segue: « Cara-moran è voce mongola, che suona fiume nero, e corrisponde all' Hoang-ho, (fiume giallo) de' Chinesi. Questo fiume gigantesco ha una distanza rettilinea di duecento ottanta miglia geografiche dalla sorgente alla foce marittima; ma lo sviluppo dell'intero suo corso ascende ad un tratto quasi due volte più lungo, calcolandosi, dietro le più esatte indagini, a cinquecento quaranta miglia geografiche... Durante il suo corso superiore, fino a quando esce dalla muraglia cinese al nord di Lau-ceu-fu, bello per la limpidezza delle acque è l'Hoang-ho; ma attraversando il territorio degli Ordos, diventa limaccioso, e il colore giallastro delle sue torbide acque gli meritò il nome chinese Hoang-ho, fiume giallo (croceus dei Missionari), come pure il mongolo Cara muran, fiume nero... La massa delle sabbie travolte dal torbido fiume giallo, ne ha elevato l'alveo sì fattamente, che spesso per copia di acque trabocca, ad onta dei. grandi argini che lo serrano dall'Ovest di Cai-fong-fu alle spiagge del mare, la cui manutenzione si calcola ammonti annualmente a circa un milione di sterline. » (LAZZARI, Mar. Polo.) Per i ristauri a questi argini è stata imposta, dice il Yule, una tassa sui mercatanti di Canton. Da ciò apparisce con quanta verità parli il Beato dei danni che soffre il paese bagnato dall'Hoang-ho.
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Sunzumayu
Nome attuale: molto probabilmente Jining
Nome: Sucumato, Sunzumayu
Relatio: Cap. XXV
"Dum autem sic irem per hoc flumen versus orientem, multis dietis transiens per multas civitates et terras, veni ad unam civitatem nomine Sucumato. Hec habet maiorem abundantiam serici quam aliqua terra de mundo; nam quando est ibi maior caritudo serici quam possit esse, bene quadraginta libre habentur minori octo solidis grossorum. In ea etiam 196est magna copia omnium mercimoniorum, similiter et panis omniumque aliorum bonorum."
"Andando dunque verso Oriente, seguendo sempre questo fiume, in molte giornate di cammino passai per molte città e paesi, giungendo infine a una città di nome Sucumato37. Questa ha la maggior quantità di seta che ci sia in nessun’altra contrada del mondo. Infatti quando c’è una grande carenza di questa seta, qui si possono comprare quaranta libbre di essa per meno di otto soldi veneziani. Così c’è anche grande abbondanza di ogni mercanzia, e similmente di pane e di tutti gli altri beni."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXV.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo LIV.=====
- Sucumat, Sumakoto, Suzumato, ricorre anche nel Polo sotto la forma di Singuimato. « Agli inutili sforzi (scrive il Lazari) de' precedenti commentatori del Polo (per la spiegazione di questo nome sconosciuto) successero le ricerche di Klaproth... Egli ravvisò in questa voce un composto. Sin-gui, secondo lui, è fallo di scrittura invece di Fingui, Fen-sciui (spartizione delle acque); ma-teu è pur voce chinese che significa porto o luogo di sbarco. » Il Klaproth adunque crede, che con questo nome venga designato il Fen-chuinanwang, posto dove il Wen-ho, introducendosi nel canale imperiale, si divide in due braccia, l'una verso al Nord-Ovest, l'altra per il Sud-Est. Ma tale sentenza non parve al tutto sicura al Yule, che sembra preferire l'opinioni del Marsden e del Baldelli, che dicono essere la città di Lintsin sul punto di congiunzione del Wei col Iun-ho. Le ragioni contro il Klaproth sarebbero queste: I° Il nome Singuimato del Polo, trovandosi scritto quasi al modo stesso anche nell'Itinerario del Beato Odorico, non pare che sia una corruzione o uno sbaglio di copista, come vorrebbe l'ingegnoso Klaproth. 2° Il Polo dice chiaramente che il fiume che bagna Singuimato viene dal Sud; circostanza che mentre si attaglia perfettamente al Wei sul qual è Lintsin-chu, non sarebbe vera, applicata al Wen. 3° Non trovasi alcuna autorità per dimostrare che Fen-chui-nsnwang fosse luogo di gran commercio, mentre il Triganzio, il Martini e il Nieuhof ed altri sono concordi nel dire che Lin-tsin-chu era città floridissima per cambi e commerci. Ecco difatti come ne parla il Triganzio: « Licinum urbs est e maximis, et commercio celebris in paucis; ad eam enim non provincialia solum mercimonia, sed e toto quoque regno pervadunt. » (Exp. Sinensis.) Pur nondimeno (seguita il Yule) il Pauthier dà per certo che questa città di Lin tsin-chu rappresenti il Singui del Polo; e non è facile dimostrare che questi abbia torto.
Sitografia
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Bejing
Nome attuale: Bejing
Nome: Cambalech o Taydo
Relatio: Cap. XXV, XXVI, Cap. XXVIII.
"De hac recedens et transiens per multas civitates et terras versus orientem, veni ad illam civitatem nobilem Cambalech. Hec civitas multum est vetus et antiqua que est in provincia Cathay; hanc ceperunt Tartari."
"Partendo da questa e passando per molte altre città e regioni, andando sempre verso Oriente, giunsi alla nobile città di Cambelech. Questa città è molto antica ed è la più vecchia che ci sia nel Catai: i tartari l’hanno però conquistata."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXV.
"Vicino a questa città, a una distanza di mezzo miglio, costruirono un’altra città di nome Taydo. Questa ha dodici porte, tra ognuna delle quali ci sono ben due miglia. In entrambe le città si abita bene e il giro attorno a queste due città misura più di quaranta miglia."
"Iuxta quam ad dimidium miliare unam aliam civitatem fecerunt nomine Taydo. Hec duodecim portas habet, intra quamlibet quarum sunt duo miliaria magna. Unde inter utramque civitatem bene habitatur, et circuitus harum duarum civitatum plura ambit quam quadraginta miliaria."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXVI.
Cambalech. Sede del Gran Khan. Odorico rimase nella corte imperiale dal 1324 al 1327.
Domenichelli
=====Illustrazioni ai Capi LV e LVI.=====
- Chambalet, o Cambalù (scrive il Lazari) « è scritto dai Persiani e dagli Arabi Cam-balig, che suona in mongolo, città del Can (o Signore); balig non è terminazione insolita ne' nomi delle città dell'Asia centrale; Cabaligh e Bisce baligh appartengono al Turchestan; Ordubalig è uno dei nomi dati a Caracorum. Così si chiamava Pechino dai Turchi al tempo del Padre Ricci. Era in origine capitale di Yan; l'anno 222 avanti Gesù Cristo, Tjin re di China, se ne impadronì, e la città perdette ogn'importanza: l'anno del Signore 936 il Tartaro Kitan la occupò, e la fece sua sede col nome di Nan-chin (corte meridionale); nel 1125 cadde in mano alla dinastia dei Chin che antecedette ai Manchus, e n'ebbe il nome Si-ching o Jen-ching (corte occidentale); il quarto re dei Chin la onorava poi del titolo di « Ciung-tu o Chung-tu » (sede centrale); nel 1212 Gengischa invase l'imperio dei Chin, e nel 1215 entrato in Ciung-tu, quasi distrusse: poi Cublai trovandosi troppo fuori dal centro delle terre conquistate in Cina dai suoi antecessori, nel 1264 stabilì la capitale in Ciung-tu, che allora assunse il nome di Can-balig, e « trovando il Gran Can (scrive il Kircher) che questa città per opinione degli astrologi dovea ribellarsi al suo dominio, ne fece ivi appresso edificare un'altra. » (China illustrata.) La nuova città ebbe nome Dai-du (ta-tu, gran corte; la Taydo del Beato Odorico e del Polo): nel 1368, cacciati i Mongoli, Pechino cessava d'esser capitale; ma nel 1421 il terzo dei Ming vi trasferì la sua sede imperiale. Di Yenching poi, o Ciung-tu, rimanevano allora appena le - 351 - vestigia, che, fatta nel 1554 la nuova cinta, furono in quella comprese, e la nuova città sì chiamò Waichling. Intorno alle dimensioni di Pechino, discordano assai tra loro i vari autori. Se si osservino le piante, dice il Yule, par che giri sessanta miglia; secondo Pauthier sarebbe soltanto ventidue; secondo il Timkoswki, ventisei o ventisette; il Polo alla sola Taido dà ventiquattro miglia di periferia; e così anche il Kircher; il Padre Gaubil dice che gira quaranta chilometri; Monsignor Verrolles (Ann. della Propag, della Fede, luglio 1867) le dà appena dieci leghe. Ad ogni modo (avverte il Yule) la misura data dal Beato può esser vera, poichè la città tartara era in antico assai più larga, e tra le due città intercede uno spazio maggiore di mezzo miglio. Il Polo, il Kircher, il Martini si accordano col nostro Beato nel dire che la città avesse dodici porte; le quali, quando i Ming nel 1421 la rialzarono, furono ridotte a nove; donde si vede che il Martini ed il Kircher presero errore. Da alcune memorie cinesi sembrerebbe che l'antica Pechino, avanti ai Ming, avesse undici porte soltanto; ma forse anche questo è errore. Circa la descrizione del palazzo poche cose sono da notare. Essa non cede in nulla (scrive il Cantù) a quella che ce ne ha lasciato il Polo; e a vicenda l'una compie l'altra. La Versione minore del Ramusio fa memoria della doppia cerchia di mura che chiudeva intorno il palazzo; notizia che ci dà anche il Polo, e che corrisponde alla forma presente del palazzo, il quale benchè sia stato ricostruito trent'anni dopo la cacciata dei Mongoli, pure sembra conservare lo stesso disegno, che forse è tradizionale e inalterabile; giacchè in tutte le terre indochinesi, e in Burma e Giava si trovano i palazzi regii edificati su tino stesso modello. Tutti hanno la sala tinta in rosso e dorata; tutti, le due cinte, la base quadrata, il piano alzato da terra otto o nove piedi. Anche il Polo ricorda il monte verde con queste parole: « Verso tramontana, circa ad un tiro di freccia dal palazzo, fece (il Gran Can) erigere una collina... tutta coperta di alberi sempre verdi, e quando il Gran Kan sa di un bell'albero, egli lo fa prendere colle radici e colla terra dov'è piantato e tirare a questo monticello dagli elefanti, fosse pur smisurato... Tutto è verde in quella collina, e però la chiamano monte verde; e sulla vetta havvi un palazzo bello e grande. » Anche fa parola come il nostro Beato, del parco posto dentro il recinto del palazzo, e così dell'esistenza del lago sonvi le testimonianze di altri viaggiatori posteriori. Quanto alla parola cefàni o cesseni, palmipede a quanto sembra che viveva nel lago, l'Yule dice di non averla trovata in alcun vocabolario: pure aggiunge che in qualche manoscritto del Polo si legge « Cesini » in significato di - 352 - falconieri; e negli altri codici in luogo di Cesini si vede Cycni, e nel Da Uzzano in una lista di uccelli è unito il Cecini alle grù. (YULE, note.) Cecine nell'antico volgare si chiamava il Cigno. Più difficile è trovare l'origine della parola « merdacas », qui usata a denotare una pietra preziosa. La pietra è di certo l'Yade o Yú deí Cinesi, avuta dai Mongoli in altissimo conto, e argomento di tante poetiche leggende. Una di queste pietre veniva trasmessa dall' uno all'altro della dinastia dei Gengiscanidi, conservatasi poi come sacro palladio anche quando, insorgendo, i Cinesi ne abbatterono la temuta potenza. Nella lingua dei mongoli questa pietra si chiamava Khas, e questa è forse l'origine della desinenza di Merdacas. Le montagne che danno il miglior Jade, sono, secondo Tirnkowski, le Mirjài, o Kash-tash. Merdacas verrebbe da Mirjai-khas? Il tartarico Khas, potrebbe venire dal Khas persiano (nobile, regale); poichè l'epiteto di nobile è dato al Jade dal Goes e dal Crawfurd. Questa parola ha molta somiglianza col titolo di « merdacascias, » col quale il Pegolotti designa una qualità di seta. Nel « Lexicon Arabicum » di Freytag, una specie di seta è chiamata Midaqs, e in armeno si dice Metaks la seta cruda, che forse è la merdachascia del Pegolotti. (YULE, note.) Esiste ancora il lago rammentato dal nostro Beato, ed ha il nome di Thai-i-chi; ed anche il bel ponte, ma molto danneggiato dal tempo.
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Sandu
Nome attuale: Shangdu / Xanadu
Nome: Sandu
Relatio: Cap. XXVI
"Dominus autem iste in estate moratur in quadam civitate que vocatur Sandu, posita sub tramontana, et est frigidior habitatio que hodie sit in mundo; in hieme vero in Cambalech ipse manet."
"Il sovrano di questo paese in estate soggiorna in una città che si chiama Sandu ed è situata a tramontana: è il luogo più freddo che ci sia oggi al mondo. D’inverno invece abita a Cambalech."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXVI.
Il sovrano in estate soggiorna in una città che si chiama Sandu ed è situata a tramontana, è il luogo più freddo che ci sia oggi.
Domenichelli
=====Illustrazioni ai Capi LVII, LVIII, LIX, LX.=====
- La disposizione delle persone intorno al Gran Can nei giorni di gran festa, è la stessa che quella descritta dal Polo; e l'accordo dei due celebri viaggiatori ci è argomento dell'esattezza del loro racconto. Quanto all'acconciatura del capo delle donne maritate, il nostro Rubrouck la descrive così: « Habent ornamentum capitis quod vocant bocca, quod fit de cortice arboris, vel alia materia;... et est grossum et rotundum quantum potest duobus manibus amplecti, longum vero unius cubiti et plus, quadrum superius... [stud bocca cooperiunt panno serico precioso, et est concavum interius, et super... quadraturam illam ponunt virgulam de calamis pennarum vel cannis gracilibus, longitudinis similiter unius cubiti et plus. Et illam virgulam ornant superius de pennis pavonis, et per longum in circuitu peniiulis caude mailardi et etiam lapidibus preciosis. » Allo stesso modo ne parlano il da Montecorvino e il Batuta; ma Frate Ricoldo da Montecroce rammenta il piede d'uomo, che le maritate portano in capo in segno di soggezione. Anche il Polo e il nostro Rubrouck fanno parola delle guardie poste alle porte per impedire che se ne tocchi la soglia; e il da Pian Carpino scrive: « Si quis calcat limen stationis alicuius, interficitur. » (YULE, note.) - 353 - È maraviglioso, e forse un po' esagerato, il numero dei servi della corte del Gran Can; ma conviene ricordare quanto sono facili gli Asiatici a magnificare le cose proprie, e Odorico non poteva verificar da sè tutto quello che gli occorreva raccontare. Pure, vuolsi avvertire, dice il Yule, che circa quel tempo il Sultano di Dilli teneva diecimila falconieri, milleducento musici, milleducento fisici, mille poeti. II Sando, ricordato nel Capitolo cinquantanovesimo, è il Clemenfu o Ciandù di Marco Polo, il Cai-min-fu di Rashid-eddin, il Cai-ping-fu dei Cinesi, la Giao-naiman-sum-cota dei Mongoli. Era situata a dieci giornate da Pechino. Nel 1264 essendo stata scelta a domicilio temporario dell'Imperatore, ebbe nome di Sciang-tu (Ciandu, Sando, residenza superiore). E segnata nella carta di Berghaus. Racconta il Yule che Spanang, storico Mongolo, parlando della caduta dal trono di Toghon Temur, ultimo di questa dinastia, pone in bocca all'infelice monarca parole di dolore per la perdita della deliziosa Ciandu. Anche il Polo dice che il carro dell'Imperatore era tirato da elefanti. Intorno ai Chuche, quattro sue guardie, dice il Lazari: « Sembra che il nome della guardia imperiale avesse la sua origine da quello dei capitani. Cinghiscan aveva fra' suoi seguaci quattro Mongoli di esperimentata fedeltà, che vegliavano nella notte i suoi riposi, gli cavalcavano allato nelle marcie, e da lui erano con paterno affetto ricambiati: alla sua morte li innalzò alla dignità di principi. I costoro discendenti, dicono gli Annali Chinesi, furono destinati alla guardia imperiale; si appellavano i quattro Chie-sie. » (LAZARI, Mar. Polo.) Eglino non lasciano il loro ufficio se non per essere elevati al posto di Ministri di stato. Qui la Versione minore del Ramusio parla di una quantità di mostri che l'Imperatore teneva nel suo palazzo. Il passo, non trovandosi in nessun altro codice, vuolsi avere per interpolato. Nondimeno, avverte il Yule, che se non in tutto, in parte il racconto può esser vero. Di tali mostri se ne sono veduti anche ai dì nostri; e l'ambizioso Kublai, che esercitava il suo impero su tanta parte di mondo, potea facilmente raccoglierne nel suo palazzo un buon numero. Il Yule narra di una donna de' dì nostri tutta pelosa al modo di quelle descritte nel testo. Gli uomini selvatici possono essere Orang-otang, specialmente quello tanto noto dell'Abissinia. Il gigante veduto dal Beato, poteva essere un uomo di grandezza straordinaria, che sebbene non fosse alto per l'appunto venti piedi, poteva per un'illusione facile ad avvenire, essere giudicato di tale altezza. E così potrebbesi agevolmente spiegare tutto il restante. - 354 -
=====Illustrazioni al Capo LXI.=====
- « La odierna divisione della Cina (scrive il Lazari) era sconosciuta all'epoca dei Mongoli. Ultimata la conquista dell'impero dei Song, Cubilai partì i suoi possedimenti in dodici Sing, o provìncie, Fu-li, Cara-corum, Liao-iang, O-nam, Scen-si, Se-ciuan, Can-su, lun-nan, Chiang-ce, Chiang-si, U-cuang, Co-li... Il vocabolo Sing indica propriamente ispezionare, e derivativamente eziandio indica una provincia e la sua amministrazione. » (LAZARI, Mar. Polo.) Non è vero che, come scrive il Beato, il Mangi formasse una sola delle dodici provincie dell'impero; ma è però da avvertire che tutte le città del Mangi da lui vedute, eccetto quella di Canton, appartenevano alla sola provincia di Chiang-ce. La menzione che il Beato fa delle poste, è in tutto esattissima. La Cina ebbe prima assai dell'Europa le poste regolari; e il Polo descrivendole, ne fa le alte maraviglie. Il nome « hiam » o « iam », sembra al Marsden che sia venuto dal persiano, e significhi originalmente « stationarius, veredus, seu veredarius equus »; e nel Diario degli ambasciatori dello Scia Roc, « iam » viene spiegato « luogo di fermata. » Neumann per contrario crede che derivi dal cinese « Ie-cen », che letteralmente vuol dire, stalle di cavalli. Anche oggi in questi « iam » il governo cinese tiene dei cavalli freschi al servigio dei corrieri ; ma sono esclusivamente riserbati all'uso del governo.
=====Illustrazioni ai Capi LXII, LXIII.=====
- La descrizione delle caccie imperiali fatta dal Beato Odorico, rassomiglia, quasi in tutto, a quella che nello scorso secolo ne dava Frate Ripa, e a quella dello storico Mirkhoud. Il vocabolo « sio » o « syo, » che, secondo Odorico, significa « misericordia », può derivare dal persiano Sheo (desine), o dal Turco Sào (siste). (YULE, note.) Il Polo dipinge a vivi colori le feste del primo giorno dell'anno e quella dell'anniversario della nascita del Gran Can. La festa della circoncisione, di cui parla il testo nostro, non poteva essere celebrata, giacchè allora l'Imperatore della Cina professava il Buddismo, in cui, a quanto si sa, la circoncisione non è in uso; se non si accenni con quel nome a qualche simigliante cerimonia. Onde al Yule sembra più esatta in questo luogo la versione del Ramusio, che rammenta le quattro feste del natalizio dell'Imperatore, dell'anniversario della sua incoronazione, di quello del suo matrimonio e della nascita del primogenito. La tavoletta d'avorio che tenevano in mano: i baroni quando intervenivano alle feste di Corte, sono dai Cinesi chiamate Kwei. Gli Annali cinesi ne fanno memoria, parlando di Yu, uno dei più grandi personaggi della Cina, che visse qualche secolo prima di Gesù Cristo. - 355 - Il nostro Rubrouck ne parla così: « Principalis nuncius semper quando veniebat ad curiam, habebat tabulam de dente elefantino ad longitudinem unius cubiti et ad latitudinem unius palme, rasam multum. Et quandocumque loquebatur ipsi Chan, vel alicui magno viro, semper aspiciebat in illam tabulam ac si inveniret ibi ea que dicebat. » Gli inchini e le prostrazioni davanti agl'Imperatori sono anc'oggi in uso presso gli orientali, specialmente in Cina; ed è noto come non molti anni fa un'ambasceria Inglese tornasse indietro senza essere ricevuta dall'Imperatore celeste, per non aver voluto assoggettarvisi. Il Polo descrive la ridicola scena quasi al modo di Odorico. Tutto questo è confermato da una relazione del cerimoniale della Corte dei Mongoli, tradotta dal Pauthier e da lui inserita nelle sue note ai Viaggi di Marco Polo. Secondo il Polo, il primo giorno dell'anno vennero una volta presentati al Gran Can cento mila cavalli bianchi; e tal costume si conservò lunga pezza tra i Mongoli, sino ai tempi di Kanghi. Si gridò la croce addosso al nostro Beato, e si fece gran rumore perchè scrisse che alla mensa del Gran Can le tazze di per sè levandosi in aria, si presentavano alla bocca di chi volesse bere. Eppure la stessa cosa ha Marco Polo. « Quando il Gran Can nella sua sala siede a tavola (egli dice), la quale come si dirà nel libro di sotto, è d'altezza più di otto braccia, et in mezzo della sala lontano da detta tavola è apparecchiata una credentiera grande, sopra la quale si tengono i vasi da bere, essi (gli astrologi) operano con l'arti sue, che le caraffe piene di vino... da sè stesse empiono le tazze loro, senza ch'alcuno con le mani le tocchino, e vanno per ben dieci passi per aere in man del Gran Chan. » Dovette esser questo un antico giuoco degli orientali. (YULE, note.)
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Caucaso
Nome attuale: Caucaso
Nome: Caspei Montes, Caspeos
Relatio: Cap. XXXI
"Aliud insuper valde mirabile dici potest, quod tamen non vidi, sed illud audivi a personis fidedignis. Nam dicitur quod Caloi est unum magnum regnum in quo sunt montes qui montes Caspeos vocantur, in quibus, ut fertur, nascuntur pepones valde magni; qui quando sunt maturi aperiuntur et intus invenitur una bestiola ad modum unius agniculi, unde ipsi illos pepones habet et illas carniculas que sunt ibi."
"Si può inoltre raccontare una cosa molto strana, che tuttavia non ho visto di persona, ma che mi è stata riferita da persone degne di fede. Si dice infatti che Caloi è un unico grande regno, nel quale ci sono montagne chiamate Caspeos; in esse dicono che crescono dei meloni enormi. Quando sono maturi si aprono e nell’interno si trova una bestiola, come se fosse un agnellino, per cui questa gente ha da mangiare sia i meloni sia la carne di questo animaletto."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXXI.
Odorico riferisce di aver sentito dire da persone degne di fede di questa località dove crescono grandi meloni che quando sono maturi, vegono aperti e dentro trovano una bestiola, un agnellino. Tale località è situata nel reame di Caloi.
Domenichelli
=====Illustrazioni al Capo LXIV.=====
- Nel Caoli del nostro Beato il Padre Marcellino da Civezza e il De Backer ravvisano la Corea; e in tale ipotesi sarebbe errore la menzione che vi si fa de' Monti Caspii. E così dev'essere. La favola dell'agnello che nasce dai poponi, il Beato l'udì raccontare, e la versione del Ramusio, che lo farebbe spettatore del prodigio, è certamente sbagliata. E questa la famosa storiella dell'agnello dei Tartari, che si mantenne in credito sino al secolo decimosettimo. La pianta che diede origine alla favola, è l'Aspidium Baromez, il cui frutto ha qualche lontana analogia con un animale: cresce essa a ponente del Volga. Secondo lo Scaligero, questo paese aveva nome Zavolha, che alcuni dicono fosse tra il Volga e l'Iaik. Da ciò il Yule argomenta che il regno di Cadeli sia il paese sull'Ethil, Adil o Herdil (Volga), cambiatone in C l'H, come è uso degli italiani. In tal modo avremmo - 356 - avvicinato i monti Caspii a Cadeli, ma avremmo allontanato d'immensa distanza il nostro Beato dal luogo di cui fa parola. (YULE, note.) Geraldo Barry (Giraldus Cambrensis), che viveva nella seconda metà del secolo decimosecondo, descrive alcune piante d'Irlanda, che producono saporose oche: nel 1400 Enea Silvio Piccolomini narra che giunto in Scozia cercò più esatte notizie dello stupendo; prodigio; ma che, secondo il solito, il decantato portento si faceva sempre più lontano, man mano ch'egli avanzava; e che, secondo quello che gli era detto, l'albero allignava soltanto alle isole Orcadi. (Hist. rer. ubiq. gest; Europa, cap. XLVI.) Fatti simili narrava il Padre Giovanni da Velasco della Compagnia di Gesù, nel 1789. Qual meraviglia che il nostro Beato prestasse fede a novelle che in tempi a noi si vicini furori tenute per vere?
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Cosan
Nome attuale: Olon Süme
Nome: Cosan
Relatio: Cap. XXXII
"latino."
"Partendo da questo impero del Catai e andando verso Occidente per circa cinquanta giornate, attraversai molte regioni e vidi molte città, giungendo infine nella terra del Prete Gianni, sul quale si dicono molte cose, ma di esse non è vera neanche la centesima parte. La città principale di questo regno si chiama Cosan, ma Vicenza si potrebbe dire una città più grande di Cosan, anche se questa ha molte altre città sotto di sé."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXXII.
Narrazione sulla terra del Prete Giovanni. La città principale di questo regno si chiama Cosan ma Vicenza si potrebbe dire una città più grande di Cosan, anche se questa ha molte altre città sotto di sè.
Domenichelli
=====Illustrazioni ai Capi LXV e LXVI.=====
- Il famoso Prete Gianni, oggetto di tante ricerche, che dal secolo decimoprimo al secolo decimoquarto tenne sveglia la curiosità dell'Europa, e che poi si credè di rinvenirlo nell'Abissinia, altri non fu in origine, che un principe nestoriano, sconfitto ed ucciso nel 1203 da Gengiscan. ll D'Avezac tratta lungamente la storia delle varie voci che corsero sul conto di questo principe, e le relazioni che esse avevano con la storica verità dei fatti. A noi non è concesso di dilungarci in tali ricerche; solo avvertiamo che il luogo a cui pervenne il Beato, deve essere, a mente del Padre Marcellino e del Yule, il Tenduc del Polo. Il signor Yule avverte inoltre che il Polo pone il Tenduc fra Tangut e Schang-tu, e che dice l'Hoang-ho venire dalle terre di Prete Gianni. Secondo il Klaproth, al N-E. della terra degli Ordoss, presso l'Hoang-ho, esisteva una città di nome Thiante o Thiante-kiun. Che sia questo il Tenduc? Anche il Polo dice che il re del Tenduc soleva sempre prendere in moglie una figlia del Gran Can. (YULE, note.) Il codice latino da noi pubblicato dice che il Beato partendo dal Catayo per le terre di Prete Gianni, pigliò per l'Oriente: è errore che deve correggersi con gli altri codici, i quali hanno « Occidente. » Il Casan di Frate Odorico è il Quengianfu di Marco Polo, il Kenchan o Kenjan dei Maomettani; e nel 1285 comprendeva il moderno Shen-si, buona parte di Kan-su, e il Szchuen. Dalla misura che ne dà Odorico, pare che anche al suo tempo avesse l'estensione che aveva nel 1285. Il testo latino dice che la terra era abbondevole di rabarbaro; l'italiano al rabarbaro aggiunge le castagne. L'una e l'altra asserzione è conforme al vero. La provincia di Szchuen è in voce di copiosa in castagne, e il Shen-si è famoso per il rabarbaro; ed entrambe, come si è detto, facevan parte di Casan.
- 357 -
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Shaanxi
Nome attuale: Xi'an, Shaanxi
Nome: Cansan
Relatio: Cap. XXXII
"Deinde ivi per multas dietas et veni ad unam provinciam que vocatur Cansan. Hec est tertia melior provincia et melius habitabilis quam habeat totus mundus. Ubi autem est minus stricta, bene est lata quinquaginta dietis et longa pluribus quam sexaginta. Unde hec provincia taliter habitatur quod, quando ab una porta unius civitatis exitur, porte alterius civitatis videntur. In hac est copia magna victualium, maxime autem castanearum; in hac etiam contrata nascitur malus barbarus, cuius tanta copia illic habetur, quod unus asinus minori sex grossis ponderatur. Hec autem provincia est una de duodecim partibus magni canis."
"Viaggiai in seguito per molte giornate e giunsi a una provincia che si chiama Cansan. Questa è la terza migliore provincia e quella maggiormente abitabile che ci sia al mondo. Dove è meno stretta, ha una larghezza di cinquanta giornate di cammino, ed è lunga sessanta. E questa provincia è tanto abitata che quando si esce dalla porta di una città, si vedono subito le porte di un’altra città. In questa provincia c’è grande abbondanza di vettovaglie, soprattutto di castagne; vi cresce anche la pianta del rabarbaro in così grande quantità che si potrebbe caricare un asino con i suoi frutti per meno di sei grossi. Questa provincia è una delle dodici parti in cui è diviso l’impero del Gran Khan."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXXII.
"Una delle migliori province del mondo."
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Tibet
Nome attuale: Qinghai
Nome: Tybet
Relatio: Cap. XXXIII
"De hac recedens, veni ad unum regnum magnum nomine Tybet, quod ipsi Indie est confine; totum hoc regnum est subiectum magno cani. In eo est maior copia panis et vini quam in aliqua parte mundi."
"Lasciando questa provincia, giunsi a un grande regno di nome Tibet, che confina con l’India stessa. Tutto questo regno è soggetto al Gran Khan e qui c’è la più grande abbondanza di pane e di vino che ci sia al mondo."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXXIII.
Giunsi a un grande regno di nome Tibet, che confina con l'India stessa.
Domenichelli
=====Illustrazioni ai Capi LXVII e LXVIII.=====
- Il Tibet « è regione (scrive il Lazari) insino ai dì nostri presso che inesplorata ed ignota... La popolazione di queste regioni chiamava da tempo immemorabile Bod, la sua patria; voce che suona terra o paese, donde sorse il nome indiano Butan, Batanga, o Butant, e più tardi il corrotto nome turco di Thibet. Gli arabi che nei secoli settimo e ottavo s'inoltrarono nell'Asia centrale, intesero questo nome pronunciato da' Turchi e lo diffusero nell'Occidente: i successivi geografi e storici arabi delirarono nel cercarne l'etimologia, altri ricavandolo dal nome della capitale del Thibet, altri da Tobba o Tobai, titolo d'onore dell'Arabia felice... Ma stando agli Annali cinesi, quel territorio si sarebbe chiamato dagli indigeni, Tu-fan o Tu-po, e quindi derivata la turca denominazione. » (LAZARI, Mar. Polo ) La città di cui parla Odorico, è dicerto Lassa capitale del Thibet. Non vi sono, dice il Yule, descrizioni complete di questa città, da confrontarle con le poche parole che ne ha lasciate Odorico. L'Huc e il Gaubet che soli ne parlarono, ci fanno sapere che le sue strade sono larghe, bene allineate e assai pulite; ma non dicono se siano lastricate. Se le mura delle case siano a quadri bianchi e neri, non si sa. Ben è vero però che nell'alto Imalaja, e forse anche nel Tibet, costumasi incastrare nei muri a regolari distanze grosse travi per lungo, le quali col tempo anneriscono. Queste travi così annerite insieme alle pietre che si mantengono bianche, danno al murato l'aspetto che Odorico descrive. (YULE, note.) Anche ai nostri giorni, il Prjevalski trovò che i Tangutani sogliono abitare sotto le tende di pelo d'Yak. Ecco come il medesimo viaggiatore descrive le tende dei Mongoli in quel paese; « L'habitation nationale des Mongols est la iourte en feutre. C'est une tente de forme ronde à la base; le sominet est conique et ouvert a fin de donner un passage à la fumée et à la lumière. La carcasse est formée par des perches enfoncées dans le sol, reliées par des cordes et laissant entre elle, un espace suffisant pour entrer ou sortir en se baissant; c'est la porte. Les extrémités superieures de ces perches sont reunies par un cercle de trois ou quatre pieds de diamètre: c'est la cheminée et la fenetre. Tout cet établissement consolidé par des cordes tendues à l'extérieur est recouvert de pièces de feutre, que l'ori double en hiver. » (Mongolie et pays des Tangoutes, trad. del LAURENS, chap. II) L'idolo di cui parla il Beato, deve essere una statua di Budda. È noto il rispetto che per gli animali hanno i Buddisti, e come abbiano in orrore lo spargere il sangue degli animali e cibarsi di carni. Odorico è il primo tra gli occidentali che parli del grande Abassi del Tibet. Intorno al nome Abassi, col quale vien qui designato il - 358 - capo della religione del Tibet, il Yule dà tre diverse etimologie. Il russo Eesko Petlin lo designa col nome di Lobacs, il cui suono si avvicina in parte a Lo Abassi; e questa sarebbe la prima etimologia. La seconda lo farebbe derivare dal mongolo Ubashi, nome dato talvolta al rappresentante di Budda. Altri finalmente credono venga dall'arabo Bacsi, corruzione del sanscrito Bhikehu (uomo mendicante), che indicava coloro che s'iniziano al sacerdozio buddistico. Il portare le donne i capelli spartiti in molte trecce, è costume che il Prjévalski incontrò tra gli abitanti del Tangut; e s' usa anche nel Tibet. Ma dei due denti simili a que' de' cignali, che secondo il testo avrebbero tutte le donne di quella terra, non si trova traccia. Il Yule pensa che Frate Odorico vedesse una donna così deforme per natura, e che ne facesse troppo arditatnente l'induzione, che tutte le altre fossero così; ovvero (che è più probabile) che lo scrittore Frate Guglielmo da Solagna fraintendesse Odorico, e ne rendesse inesattamente il racconto. Le donne del Tibet portano per ornamento al collo ed in testa zanne di cignale. Gli abitanti dell'interno dell'Asia fin dalla più remota antichità furono in voce di cannibali. Ne parlano il nostro Rubrouck e il suo confratello da Pian Carpino, e in tempi più antichi, Erodoto e Mela. Quanto a riti funebri, in quattro modi soglionsi celebrare nel Tibet. La prima e la più solenne è la cremazione: quest'onore è riserbato ai soli Lama; la seconda è l'immersione nelle acque di un fiume o di un lago; la terza è l'esposizione del corpo all'aperta campagna, dove resta preda agli uccelli rapaci; la quarta infine è il darlo pasto ai cani sacri, riserbati a tal uso, o a cani comuni od erranti. Sogliono poi del morto parente serbare alcun osso come religiosa memoria. La terza guisa di seppellire è la descritta dal Beato Odorico. Anche il signor Préjvalski (Mongolie et pays det Tangoutes, trad. del LAURENS) scrive: « Un cadavre n'est pas plus tôt jeté sur le sol, que les vautours, les corbeaux et les chiens se précipitent dessus... Les Bouddhistes regardent comme un excellent présage que le corps soit rapidement dévoré; c'est pour eux une preuve que le defunt était aimé de Dieu. »
=====Illustrazioni al Capo LXIX.=====
- Di questa storia dell'uomo delicato non si trova tracce in altri scrittori; solo in parte somiglia a ciò che il Polo racconta dei re detronizzati di quelle regioni. Nulla ha però d'impossibile; e noi dal non trovar conferma di altri testimoni del fatto, non possiamo dirittamente conchiudere che non sia vero. Il tagar, misura di riso, è voce turca e persiana, che significa un grosso sacco per mettervi dentro foraggi. Secondo il Timkowsky, può contenere cento quaranta libbre di farina. In Cina le rendite si sti- - 359 - mavano a sacchi di farina. Dell'esattezza delle osservazioni del Beato sulle unghie lunghe degli uomini e sulla piccolezza dei piedi delle donne cinesi, già abbiamo parlato, e vedemmo com'egli fosse il primo a darne notizia.
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Wikipedia - Sakya
Wikipedia - Monastero_di_Sakya
Millestorte
Nome attuale: Alamout, Iran
Nome: Millestorte
Relatio: Cap. XXXV
"Dum autem recederem de terris Pretegoan, veniens versus opponentem, applicui ad quandam contratam que Milestorte vocatur. Hec contrata est pulchra et multum fertilis. In hac contrata erat unus qui vocabatur senex a monte, qui inter duos montes huius contrate fieri fecerat unum murum, qui istum montem circuibat."
"Partendo dalla terra del Prete Gianni e andando verso Occidente, giunsi in una regione chiamata Milestorte. È una bella terra e molto fertile. In questa regione c’è un personaggio chiamato «il vecchio della montagna», il quale fra due monti di questa zona aveva fatto costruire un muro che circondava tutta la sua montagna. ."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXXV.
Un certo paese chiamato Millestorte, Marco Polo descrive anche questo luogo in Persia. Nella zona viveva un sovrano, chiamato Vecchio della Montagna, in un castello inaccessibile nei monti Elburz. I mongoli distrussero questo castello nella seconda metà del tredicesimo secolo.
Domenichelli
=====Illustrazioni ai Capi LXX, LXXI, LXXII.=====
- La storia del Vecchio della Montagna è tal quale anche nel Polo, nel racconto mussulmano riportato dal De Guigne, in quello arabo pubblicato dal Zurla, e nel Cinese dato in luce dal Klaproth. Questa consonanza di tanti scrittori dimostra, che così se ne descriveva la vita in Oriente, e che il Beato Odorico fu esattissimo nel riferirla. Ecco quel che ne dice il Lazari: « Un fanatico missionario egiziano, della setta degli Ismaeliti, indarno perseguitato dai Selciuchi avea raccolti nella Persia numerosi proseliti, e ritiratosi nel castello inaccessibile di Alamut (Illaa-amut, nido d'avoltoio), non lungi da Casvin, ne aveva fatta la culla di sua futura potenza... Dilatò in breve tempo i suoi dominii a tutte le castella del Rudbar... Divertì gli animi de' seguaci a nuovi riti; procurò a genti sensuali il godimento di tutti i piaceri;... e toltosi agli altrui sguardi per sempre, dal dirupato Alamut fulminava a' suoi nemici la morte. Al fanatismo religioso de' suoi seguaci si aggiungeva una esaltazione artificialmente prodotta col mezzo di una inebriante bevanda, spremuta dalla pianta che gli Arabi chiamano « Ascisce » (hyoscyamus, secondo Hammer-Purgstall, donde il lor nome Asciscin, Assassini), che lor turbava i sensi, e facendoli sordi al terror della morte, l'animava ad eseguire i più feroci comandi dello Sceic... Caddero sotto i lor colpi Mostarsced, califo di Bagdad; un figlio del califo Mostali; Nizam-ul-Mulc, visir turco; un deis d'Ispaan; uno di Tabris; un mufti di Casvin... Gli sforzi degli Abassidi e dei Selciuchi per distruggere questa empia masnada, tornarono inutili. » (LAZARI, Mar. Polo.) Si ricorda che Federico Il invitasse a un pranzo gli ambasciatori del Vetulus de Montanis. Nel 1256 Hulagu mossegli guerra di sterminio, ne espugnò le castella, scannandone tutti gli abitanti, senza risparmiare nè infermi, nè donne, nè fanciulli, e il debole Rochneddin, successore di Assali II, il più famoso di quei tiranni, fu ucciso sulle rive del Gion. La contrada del Vecchio del Monte vien detta, nel racconto cinese, riportato dal Klaproth, Mulahi; Rubrouck l'appella Mulhet, forse dall'arabo Mulàhidah (empio, ateo), come era chiamata la setta degli assassini dai Selciuchi. Forse da questa parola è derivato il Millestorte dei Beato, che risponderebbe a Malhadistan (terra di atei). Nel Capo settantaduesimo abbiamo soltanto da notare che, secondo il nostro Wadingo, ai miracoli lì raccontati ebbe parte anche il Beato Odorico, e che degli idoli di feltro parlano anche il Rubrouck e il da Piancarpino.
Sitografia
Wikipedia - Fortezza di Alamut
Hindu Kush
Nome attuale: Dunhuang ???
Nome: Tartaria
Relatio: Cap. XXXVI
"In hac autem contrata omnipotens Deus fratribus minoribus hanc magnam gratiam dedit: nam in magna Tartaria ita habent pro nichilo expellere demones ab obsessis, sicut de domo expellerent unum canem."
"In questa regione Dio onnipotente ha concesso questa grande grazia ai frati minori: infatti in questo grande paese dei tartari i nostri frati riescono a scacciare i demoni dagli ossessi senza nessuna fatica, come quando si caccia un cane fuori di casa."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXXVI.
"Aliud etiam magnum terribile ego vidi. Nam cum irem per unam vallem, que posita est super flumen deliciarum, multa corpora mortua ego vidi; in qua etiam valle audivi diversa genera musicorum, maxime autem achara que ibi mirabiliter pulsabatur, unde tantus erat ibi clamor quod michi timor maximus incumbebat. Hec autem vallis forte longa est septem vel octo miliaribus terre, in qua, si aliquis intrat, numquam de illa exit, sed statim moritur sine mora."
"Ho visto anche un’altra cosa assai tremenda. Mentre andavo lungo una valle, che si trova sopra il fiume delle delizie, vidi i cadaveri di molta gente, e in quella medesima valle udii il suono di diversi strumenti musicali, soprattutto quello della cetra che veniva suonata in modo stupendo. Ma c’era un rumore così grande che mi sentivo oppresso da grandissima paura. Questa valle è lunga forse sette o otto miglia e se uno vi entra non riesce più a uscirne, ma muore subito senza indugio alcuno."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo XXXVII.
Odorico riferisce su un gruppo di frati francescani che erano abili nel cacciare i demoni .
Un'altra terribile et gran cosa vidi, andando per una gran valle, la quale sì è posta sopra el fiume (de le dilitie) (2). In quella vidi molti corpi morti: ne la quale etiandio udiva molte et diverse generationi di stormenti, specialmente nacheri, che maravigliosamente sonavano. Et era ivi sì grande el chiamore, ch'io n'ebbi una gran paura. Questa valle è lunga forse (sette o otto) (3) miglia di terra; ne la quale se alcuno infedele entrasse mai, di quella non esce: anche muore incontenente senza dimoranza.
Domenichelli
=====Illustrazioni ai Capi LXXIII, LXXIV, LXXV,LXXVI, LXXVII.=====
La storia della terribile valle è la cosa più maravigliosa che occorra in tutto il Viaggio del Beato Odorico. Quel che noi ne pensiamo lo accennammo in una nota alle notizie da noi raccolte sulla vita del Beato. Dove fosse tal valle, è assai difficile ritrovare. Il Burnes, dice il Yule, fa una terribile descrizione della valle al nord di Bamian. Potrebbe essere che il nostro Viaggiatore avesse traversato l'Hindu Kush, tornando dal Tibet in Europa; giacchè i Persiani che andavano nel Tibet, passavano da Badakshan, dove comincia il passaggio dell'Hindu Kush. E lì Frate Mauro pone la « Valle ditta Fausta, ne la quale se vede e aldese spiriti e altre cose monstruose. » Se potessimo sapere dove sia il « Flumen deliciarum » e a che corrisponda, avremmo una guida per trovare il luogo, dove Frate Odorico ebbe a provare tanta paura; ma anche intorno a questo non possiamo fare che congetture. Se il Beato narrando a Frate Guglielmo da Solagna avesse detto « fiume de' piaceri », come ha il Ramusio, si potrebbe ravvisarvi il Panchshir che è presso il Reg Rawàn; il qual fiume bagna la valle di Koh-Daman, che, a detta del Wood, corre voce che sia infestata da spiriti maligni. Oltre a ciò, il Baber narra che presso il passo di Panchshir una compagnia di assassini del Kàfiristan solevano assalire i viandanti, uccidendone un buon numero e lasciandone i corpi insepolti.
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Dunhuang, nome che significa "faro scintillante", è una città cinese nella prefettura di Jiuquan. Si trova nella parte occidentale della provincia del Gansu, lungo la celebre Via della Seta, ed è posta in uno degli incroci di culture più significativi del pianeta. La città era l'ultima oasi per i viaggiatori diretti verso l'Occidente, prima della separazione della grande via in due diramazioni, necessarie per evitare di attraversare il deserto di Taklamakan. I due forti della città, la "Porta di giada" e il "passo Yangguan", significavano per i viaggiatori provenienti da ovest che si recavano in Oriente, l'aver superato indenni il percorso intorno al deserto, che era costellato di ossa di sfortunati viandanti. Il centro rappresentava l'ultimo baluardo della muraglia cinese.
https://it.wikipedia.org/wiki/Dunhuang
Mingsha Shan ???
https://www.viaggio-in-cina.it/dunhuang/attrazioni/monte-mingsha.htm
Grotte di Mogao ???
https://www.viaggio-in-cina.it/dunhuang/attrazioni/grotte-di-mogao.htm
https://it.wikipedia.org/wiki/Grotte_di_Mogao
https://www.viaggio-in-cina.it/via-della-seta/
Padova
Nome attuale: Padova
Nome: Padova
Relatio: Conclusione C - Versione di Guglielmo di Solagna
"[Odorico] Ego frater Odoricus de Foro Iulii provincie Sancti Antonii, de quadam terra que dicitur Portus Nahonis, de ordine fratrum minorum, testificor et testimonium perhibeo reverendo patri fratri Guidoto, ministro antedicte provincie sancti Antonii in Marchia Trivisina, cum ab eo fuerim per obedientiam requisitus, quod hec omnia que superius scripta sunt aut propriis oculis vidi aut ab hominibus fidedignis audivi. Communis etiam locutio illarum contratarum illa que non vidi testantur esse vera. Multa etiam alia ego dimisi que scribi non feci, cum ipsa quasi incredibilia apud aliquos viderentur, nisi illa propriis oculis conspexissent. Ego autem de die in diem me preparo ad illas contratas accedere, in quibus dispono me mori ne illi placebit a quo cuncta bona procedunt.
[Guill.] Predicta autem fideliter frater Guillelmus de Solagna in scriptis redegit, sicut predictus frater Odoricus ore proprio exprimebat anno Domini 1330, mense Maii, Padue in loco sancti Antonii; nec curavit de latino difficili et curioso ac ornato, sed sicut ille narrabat sic iste scribebat, ad hoc ut omnes facilius intelligerent que dicuntur."
"[Odorico] Io, frate Odorico, da Friuli, nella provincia di San Antonio, da una certa terra chiamata Pordenone, dell'ordine dei fratelli minori, testimonio e rendo testimonianza al mio reverendo padre frate Guidotus, un ministro nella predetta provincia di Sant'Antonio della Marca Trevigiana, quando fui da lui per ubbidienza richiesta, perché o vidi coi miei occhi o udii da persone degne di fede tutte queste cose che di sopra sono state scritte. Anche l'espressione generica di quei contratti, che non ho visto, testimonia che sono veri. Ho lasciato anche molte altre cose che non ho scritto, poiché ad alcuni sembravano incredibili, a meno che non le avessero viste con i propri occhi. Ma giorno per giorno mi preparo ad avvicinarmi a quei contratti, nei quali mi dispongo a morire, affinché piaccia a colui dal quale procedono tutte le cose buone
[Guill.] E il predetto frate Guglielmo di Solagna fedelmente ridotto negli scritti, come il predetto frate Odorico di sua bocca espresse nell'anno del Signore 1330, nel mese di maggio, Padova in luogo di Sant'Antonio; né gli importava in latino difficile e curioso e ornato, ma come narrava così scriveva, acciò che ciascuno più facilmente capisse ciò che si diceva."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Capitolo I.
A maggio 1330, Odorico è a Padova presso il Convento dei frati minori situato a fianco alla Basilica di Sant'Antonio dove ha dettato al confratello Guglielmo di Solagna, su indicazione ed in obedienza del ministro provinciale frate Guidotto, la testimonianza del suo viaggio in oriente.
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Wikipedia - Basilica di Sant'Antonio a Padova
Pisa
Nome attuale: Pisa
Nome:Pisa
Relatio: Conclusione B - versione Marchesino da Bassano
"[Mors] Preterea nec hoc arbitror oblivioni tradendum. Nam ipse beatus frater Odoricus, cum de ultramarinis partibus ad suam provinciam remeasset, Marchiam scilicet Trivisinam, et ad presentiam summi pontificis adire vellet, ut ab eo licentiam peteret quod quinquaginta fratres, de quacumque provincia essent, dummodo ire vellent secum ducere posset, recessit de Foro Iulii, unde ipse nativus erat, et dum esset Pisis gravi est infirmitate correptus; quapropter compulsus est ad propria remeare. Quam ob rem, dum esset in Utino Foro Iulii civitate, anno ab Incarnatione 1331 prima die Idus Ianuarii de hoc mundo triumphans pervenit ad gloriam beatorum, ubi virtutibus et miraculis quam plurimis nunc corruscat; nam per eum claudi, ceci, surdi, muti sunt saluti restituti."
"[Morte di fra’ Odorico] Ritengo inoltre che non si possa dimenticare quanto segue. Il medesimo beato fra’ Odorico, essendo ritornato dalle regioni d’oltremare alla sua provincia, cioè nella marca trevisana, e volendo presentarsi al sommo pontefice per chiedergli il permesso di poter condurre con sé cinquanta frati di qualunque provincia fossero, purché volessero venire liberamente, partì dal Friuli, dove era nato, ma mentre era a Pisa fu colpito da grave infermità, per cui fu costretto a ritornare nella sua patria. Per questo, mentre si trovava a Udine, una città del Friuli, il 14 gennaio dell’anno 1331 dall’incarnazione, partì trionfante da questo mondo e giunse nella gloria dei beati, dove ora splende per le sue virtù e per i miracoli numerosissimi che compie. Infatti per sua intercessione zoppi, ciechi, sordi e muti riacquistano la salute.."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Conclusione.
Relatio: Conclusione D - versione Enrico di Glatz
"[Mors] Anno igitur Domini 1331, disponente se fratre predicto Odorico ad perficiendum iter sue peregrinationis, prout mente conceperat et etiam ut via illa et labor sibi magis esset ad meritum, decrevit primo presentiam adire domini et patris omnium summi pontificis Domini Iohannis pape XXII; cuius benedictione obedientiaque recepta, cum societate fratrum secum ire volentium ad partes infidelium se transferret. Cumque sic eundo versus summum pontificem non multum distaret a civitate Pisana, in quadam via occurrit sibi quidam senex in habitu peregrini, ex nomine eum salutans: «Ave – inquiens – frater Odorice». Et cum frater inquireret quomodo ipsius haberet notitiam, respondit: «Dum eras – inquit – in India novi te tuumque novi sanctum propositum. Sed et tu modo ad tuum unde venisti conventum revertere, quia decimo die sequenti ex hoc mundo migrabis». Verbis igitur senis attonitus et stupefactus, presertim cum senex ille statim post dictum ab eius aspectu disparuit, reverti decrevit; et reversus est in bona prosperitate, nullam sentiens gravedinem corporis seu aliquam infirmitatem. Cumque esset in conventu suo Utinensi in provincia Paduana decima die prout facta fuit sibi revelatio, accepta communione ipsoque ad Deum disposito, etiam corpore existens incolumis in Domino feliciter requievit."
"[Morte di fra’ Odorico] Nell’anno del Signore 1331, mentre il predetto fra’ Odorico si apprestava a concludere il viaggio della sua peregrinazione, come aveva pensato nella sua mente e anche perché la strada e la fatica sopportata gli fossero di maggior merito, decise anzitutto di presentarsi al sommo pontefice, papa Giovanni XXII, per chiedergli la sua benedizione e il permesso di trasferirsi nelle regioni degli infedeli, insieme con quei frati che di propria volontà accettassero di accompagnarlo. E mentre andava verso il sommo pontefice, a non molta distanza dalla città di Pisa, dove risiedeva in quel tempo il papa, lungo la strada gli venne incontro un vecchio, vestito con l’abito del pellegrino, il quale lo chiamò per nome e lo salutò dicendo: «Salve, fra’ Odorico». E poiché il frate gli domandò come mai lo conoscesse, quello rispose: «Quando eri in India ti ho conosciuto e seppi del tuo santo proposito. Ma tu ora ritorna al convento da cui sei partito, perché tra dieci giorni lascerai questo mondo».
Stupefatto e attonito per queste parole, specialmente perché dopo queste parole quel vecchio scomparve dalla sua presenza, decise di tornare indietro e ritornò in buona salute, senza percepire nessuna pesantezza o infermità corporale. Essendo poi nel suo convento udinese, appartenente alla provincia padovana, dieci giorni dopo che gli fu fatta quella rivelazione, avendo ricevuto la santa comunione ed essendo ben disposto verso Dio, benché fosse sano di corpo e di mente riposò felicemente nel Signore."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Conclusione.
Odorico, arrivando a Pisa, molto probabilmente era diretto al convento di San Francesco dove i frati minori erano presenti dal 1261. Avvertito di morte imminente da pellegrino sulla strada. Gli fu detto di tornare a Udine.
Sitografia
Wikipedia - Chiesa di San Francesco (Pisa)
Italia Nostra - Chiesa e convento di S. Francesco - Pisa PDF
Provincia Italiana San Francesco - Convento di San Francesco - Pisa
Udine
Nome attuale: Udine
Nome:Udine
Relatio: Conclusione B versione Marchesino da Bassano
"[Mors] Preterea nec hoc arbitror oblivioni tradendum. Nam ipse beatus frater Odoricus, cum de ultramarinis partibus ad suam provinciam remeasset, Marchiam scilicet Trivisinam, et ad presentiam summi pontificis adire vellet, ut ab eo licentiam peteret quod quinquaginta fratres, de quacumque provincia essent, dummodo ire vellent secum ducere posset, recessit de Foro Iulii, unde ipse nativus erat, et dum esset Pisis gravi est infirmitate correptus; quapropter compulsus est ad propria remeare. Quam ob rem, dum esset in Utino Foro Iulii civitate, anno ab Incarnatione 1331 prima die Idus Ianuarii de hoc mundo triumphans pervenit ad gloriam beatorum, ubi virtutibus et miraculis quam plurimis nunc corruscat; nam per eum claudi, ceci, surdi, muti sunt saluti restituti."
"[Morte di fra’ Odorico] Ritengo inoltre che non si possa dimenticare quanto segue. Il medesimo beato fra’ Odorico, essendo ritornato dalle regioni d’oltremare alla sua provincia, cioè nella marca trevisana, e volendo presentarsi al sommo pontefice per chiedergli il permesso di poter condurre con sé cinquanta frati di qualunque provincia fossero, purché volessero venire liberamente, partì dal Friuli, dove era nato, ma mentre era a Pisa fu colpito da grave infermità, per cui fu costretto a ritornare nella sua patria. Per questo, mentre si trovava a Udine, una città del Friuli, il 14 gennaio dell’anno 1331 dall’incarnazione, partì trionfante da questo mondo e giunse nella gloria dei beati, dove ora splende per le sue virtù e per i miracoli numerosissimi che compie. Infatti per sua intercessione zoppi, ciechi, sordi e muti riacquistano la salute.."
Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, Conclusione.
Ritorno di Odorico a Udine presso il convento di San Francesco e morte in data 14 gennaio 1331.
Sitografia
Wikipedia - Chiesa di San Francesco - Udine
Carta Archeologica FVG - Chiesa di San Francesco - Udine
Bibliografia
Annalia Marchisio, Odorico da Pordenone Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum Firenze, SISMEL. Edizioni del Galluzzo 2016 (ISBN 978-8884506993) pp. VI-643 (Edizione nazionale dei testi mediolatini d'Italia 41. Ser. I 23) - URL
Odorico da Pordenone, Racconto delle cose meravigliose d'Oriente; Introduzione di Luciano Bertazzo, 2018
Lucio Monaco and Giulio Cesare Testa. Odorichus, De rebus incognitis: Odorico da Pordenone nella prima edizione a stampa del 1513. Camera di Commercio, Pordenone, 1986.
Teofilo Domenichelli. Sopra la vita e i viaggi del Beato Odorico da Pordenone dell'Ordine de' Minori. Rist. an. in Odorico da Pordenone, relazione del viaggio in Oriente e in Cina (1314-1330?), Pordenone 1982 edition, Prato, Ranieri Guasti, 1881. URL
Giovanni Battista Ramusio. Navigazioni e viaggi. Ripubblicato da Einaudi, vol. IV (pp. 763), Torino 1983 (cur. MARICA MILANESI) - Due versioni del Viaggio in Cina del Beato frate Odorico, pp. 265-318. edition, 1574.